I carri sono l'arma che fa risparmiare sangue.
Heinz Guderian

- Le autoblindo
- I carri armati Fiat 2000 e Renault FT 17
- L'organizzazione dei corazzati
- Il carro armato Fiat 3000
- Il carro armato veloce C.V. 29
- La dottrina, i regolamenti, le circolari
- La pubblicistica
- I corazzati all'estero
- La fine degli anni venti

Le autoblindo
Fu l'esercito belga ad impiegare per la prima volta in combattimento una vettura da turismo Minerva parzialmente blindata, quando i tedeschi invasero il paese. I comandi inglesi restarono colpiti dalle possibilità del nuovo mezzo e ben presto realizzarono reparti organici.

La prima autoblindo riprodotta in serie in Italia fu la Lancia 1ZM costruita dall'Ansaldo dei fratelli Perrone su autotelaio dell'autovettura Lancia 25/35 HP. In totale dal 1915 al 1918 furono costruite 138 "automitragliatrici blindate" in due modelli. Il primo aveva due torrette girevoli coassiali che potevano ruotare indipendentemente, con un armamento di tre mitragliatrici Maxim Vickers modello 1906 nella torretta inferiore e una nella superiore con una dotazione di 15.000 colpi. Furono subito evidenti le difficoltà nella guida dovute al baricentro troppo alto.

I due modelli avevano le stesse dimensioni (5,40x1,80) e lo stesso peso (tonn. 4,2), caratterizzati da due tagliafili che proteggevano la parte anteriore. L'altezza era diversa, 2,90 per il primo, 2,40 per il secondo nel quale era stata abolita la torretta superiore e la mitragliatrice di cui era dotata fu sistemata nella parte posteriore. Il secondo modello aveva in dotazione la mitragliatrice francese St. Etienne mod. 907 F, da 8 mm. che mostrava tutti i difetti delle armi automatiche dell'epoca, aggravati dalla difficoltà del fuoco in movimento. L'armamento era completato da quattro fucili mitragliatori che sparavano da appositi finestrini.

L'equipaggio, caratteristica dei corazzati della Grande Guerra, era numeroso, sei uomini con un ufficiale comandante e il pilota "volantista". Le squadriglie formate da sette mezzi su tre sezioni più uno di riserva furono assegnate alle armate. Ogni squadriglia aveva un organico d'otto ufficiali e 73 tra sottufficiali e soldati, un'autovettura per il comandante, 5 autocarri di cui uno adibito ad officina, una motocicletta e 4 biciclette. Penalizzate dall'impossibilità di abbandonare le strade, ebbero un impiego non rilevante nella guerra di posizione che caratterizzò il fronte. Le prime unità, costituite nel giugno 1915 con personale della cavalleria, parteciparono alla presa di Gorizia, fronteggiarono le avanguardie austriache nella ritirata al Piave e inseguirono il nemico in rotta dopo la battaglia di Vittorio Veneto spingendosi sino ad Innsbruck. Alla fine del conflitto, le squadriglie erano 17 di cui tre assegnate a divisioni di cavalleria e la 14ª al 1° Riparto di Marcia per l'istruzione sui carri d'assalto con sede in Verona.

Il 24 ottobre 1918 fu emanata dal Comando supremo la circolare 1.070 Istruzioni e norme per l'impiego delle squadriglie d'automitragliatrici blindate e delle motomitragliatrici nella quale si privilegiava la sorpresa e la velocità stabilendo l'uso del mezzo per sezioni anche per le difficoltà del comandante di dirigere la squadriglia alla voce. La considerazione in cui erano tenute non era molto elevata se una lettera dello stato maggiore del 30 dicembre 1918, diretta all'ammiraglio Millo, con la quale si aderiva alla richiesta di una squadriglia, era postillata con l'annotazione "Sembra opportuno ve ne sono da buttare via." (1)

Altre cinque autoblindo furono in seguito cedute alla neonata Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e assegnate alla 24ª Legione Carroccio di Milano e alla 92ª Legione Francesco Ferruccio di Firenze e ben 34 all'Arma dei Reali carabinieri. Nel dopoguerra la prima squadriglia con la brigata Piemonte fu inviata in Carinzia, ove truppe jugoslave avevano occupato Klagenfurt. Altre furono destinate all'ordine pubblico anche per l'impatto psicologico che avevano sui dimostranti. La 4ª squadriglia si unì a D'Annunzio in marcia su Fiume e costituì l'ossatura della difesa.

La 1ZM rimase in dotazione fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Nel 1928 l'armamento fu sostituito da tre mitragliatrici Fiat mod. 14. Un nuovo modello costruito dall'Alfa Romeo nel 1923, a seguito della stipula di un contratto con lo stato maggiore, non fu accettato perché non conforme ai requisiti operativi richiesti. Qualificata "a consumazione" nel 1938 partecipò alle operazioni belliche in Spagna, in Africa Orientale e alla seconda guerra mondiale ormai completamente obsoleta.

Carri armati Fiat 2000 e Renault FT 17
Quando all'alba del 16 settembre 1916 carri armati inglesi sferragliando nell'oscurità si profilarono improvvisamente davanti alle infreddolite vedette tedesche di guardia alle trincee di Flers nelle Somme, pochissimi percepirono che una nuova era si apriva nella storia della guerra. Nasceva col carro armato l'arma che poteva costituire la risposta alla cristallizzazione dei fronti, all'affossamento degli eserciti nelle trincee fangose della prima guerra mondiale, al predominio del fuoco sul movimento, della difesa sull'attacco. Ma gli stati maggiori inglese e francese, per tutta la durata del conflitto, non riuscirono a padroneggiare i numerosi problemi tattico-operativi posti dal nuovo sistema d'arma, la cui incidenza sulle operazioni al fronte occidentale ebbe valutazioni contrastanti.

Sul teatro operativo italoaustriaco i carri armati non furono impiegati, né sollevarono grandi echi le notizie provenienti dal fronte occidentale. Solo dopo sforzi tenaci lo stato maggiore riuscì ad ottenere dalla Francia all'inizio del 1917 un carro armato Schneider. Le valutazioni del mezzo effettuate sui terreni rotti che caratterizzavano il fronte furono positive, ma tutte le richieste avanzate per ottenere altri mezzi furono respinte dal Comando francese. Il disastro di Caporetto pose fine a tutti i piani e solo nell'anno successivo dopo faticose trattative si riuscì ad ottenere un Renault FT 17, ove FT stava per "faible tonnage".

Nel 1917 la Fiat aveva progettato di propria iniziativa in due esemplari un carro, il Fiat 2000, che fu non solo il primo ma il più pesante mezzo prodotto dall'industria nazionale. Era un ingombrante cassone con un equipaggio di dieci uomini pesante 38,78 tonnellate, dalle dimensioni di metri 7,40x3,30 e un'altezza di metri 3,80 che arieggiava il tedesco Sturmpanzerwagen A7V. Fu il primo carro al mondo sul quale fu montata una torretta girevole per il cannone da 65 mm. che con sette mitragliatrici ne costituiva l'armamento. Nel giugno 1918 il mezzo fu sottoposto a prove di valutazione e si accertò che al problema della sagoma troppo visibile si aggiungevano una mediocre velocità e dei cingoli troppo stretti. Per queste ragioni ne furono prodotti solo due esemplari.

Nell'agosto successivo a Piacenza sui resti delle vecchie fortificazioni davanti ad alti ufficiali, tra cui il Commissario alle Armi e Munizioni ed esponenti dell'industria pesante, il conte Francesco Bennicelli, maggiore di complemento, che aveva preso parte ad operazioni belliche con carri francesi e inglesi e che da tempo si batteva strenuamente per la nuova arma, pilotò un Renault FT 17, nato dalla cooperazione tra il generale Jean-Baptiste Estienne e l'industriale Louis Renault. Il carro fece una buona impressione e una commessa di 1400 mezzi, in ragione di 200 al mese dal maggio 1919, fu ordinata ad un consorzio formato dalla Fiat, dall'Ansaldo e dalla Breda. L'improvviso, inatteso 'scoppio' della pace, dovuto al crollo economico e morale degli imperi centrali, ne impedì la produzione e sollevò lo stato maggiore dall'immane mole di problemi tecnici, addestrativi e dottrinali che il loro impiego avrebbe comportato. La commessa fu ridotta a cento pezzi da consegnare nel settembre 1919, consegna slittata per la precaria situazione economica del paese al 1921.

L'organizzazione
Nel 1918 i mezzi in dotazione erano sette: uno Schneider, quattro Renault FT 17 e due Fiat 2000 che costituivano la Sezione speciale per l'istruzione alla guida di mezzi cingolati che assunse poi la denominazione di Riparto speciale di marcia carri d'assalto con sede in Verona. Il reparto fu poi sciolto alla fine delle ostilità e gli ufficiali e i soldati rimandati ai reparti di provenienza. Alla stessa data la Francia allineava 1167 carri, la Gran Bretagna 720. Successivamente nel dicembre 1918 fu costituita a Torino la Batteria autonoma carri d'assalto, su due sezioni di quattro carri (tre Renault e un Fiat 2000) che, in parte, fu distaccata in Libia nel febbraio 1919 per un breve ciclo d'operazioni contro i ribelli.

In Tripolitania il Fiat 2000 ebbe il battesimo di fuoco a Misciasta presso Zanzur dove mise in fuga precipitosa un centinaio di terrorizzati arabi che non potè inseguire per la scarsissima velocità. I carri ebbero a supporto quattro autocarri Fiat 15 forniti dal Comando truppe della Libia. La Batteria fu poi trasferita a Nettuno nel maggio 1919 e quindi a Roma nel 1922 con la nuova denominazione di Compagnia Autonoma carri armati prima e Gruppo carri armati poi. Sarà una costante caratteristica dei vertici militari il continuo cambiamento dei nominativi d'organi e unità. Il Gruppo assunse il 23 gennaio 1923 la successiva denominazione di Riparto carri armati con 21 ufficiali di carriera, quattro sottufficiali e 261 soldati.

Dal 1922 cominciarono ad affluire ai reparti i primi Fiat 3000 mod. 1921, versione italiana del francese Renault FT 17, sicuramente il modello più diffuso degli anni venti. Con l'ordinamento del 1926, i carri armati diventarono una specialità autonoma con la denominazione Centro di formazione carri armati. Poteva essere il punto di partenza per la costituzione di un'arma autonoma e indipendente come la Panzerwaffe, ma nell'ordinamento ci si affrettò a precisare che "gli ufficiali appartengono alle varie armi e corpi e sono compresi nella tabella organica dell'arma o corpi rispettivi".

Il primo ottobre 1927 fu costituito il Reggimento carri armati con sede in Roma; l'organico era composto da un comando, un deposito, cinque battaglioni su quattro compagnie di nove carri, ciascuna su due plotoni da combattimento e un plotone misto. Il plotone da combattimento era su quattro carri. Il comandante del battaglione guidava il reparto in motocarrozzetta. Nel 1933 la forza era di due compagnie su venti carri. Dal 1929 il reggimento fu supportato da un Gruppo autoblindo su quattro squadriglie. Il carro in dotazione era il Fiat 3000 mod. 21 e in seguito il modello 30. Nel tempo si raggiunse una forza complessiva di circa cento mezzi, distribuiti in misura di una ventina per battaglione.

Nel 1928 quattro battaglioni furono accasermati a Bologna, Brescia, Udine e Codroipo e poi a Bassano del Grappa in ossequio alla filosofia della guerra alpina. Ad ogni battaglione fu aggregato uno squadrone d'autoblindo. Fu solo nell'estate 1929, durante le grandi manovre in Val Varaita nelle Alpi Marittime, che si accertarono i limiti del Fiat 3000. Il carro, la cui progettazione risaliva alla prima guerra mondiale, non si dimostrò adatto ai terreni montani. La dottrina, la filosofia, la pubblicistica militare guardavano senza nessuna ipotesi alternativa alle Alpi come al sicuro teatro della guerra futura, alle Alpi dalle quali nel corso dei secoli erano scesi gli invasori, alle Alpi che rappresentavano un bastione difensivo, la nostra Maginot. Fu un classico esempio dell'errata ipotizzazione di uno scenario bellico senza alternative. Ironia della sorte nel secondo conflitto mondiale la guerra risalì la penisola dalla punta dello stivale. Eppure con il nemico per antonomasia dell'Italia fascista, la Francia, avevamo in comune il lunghissimo confine libico composto da deserti e pianure nelle quali i corazzati si dimostreranno l'arma vincente.

Guerra di montagna quindi, con necessità d'armamenti adatti. Questa piattaforma concettuale determinava la necessità di un carro armato piccolo, leggero, veloce, capace di muoversi con sicurezza in terreni a difficile scorrimento e di svolgere le funzioni d'esplorazione e d'accompagnamento della fanteria. Da questo assioma nacque il carro armato leggero, che costituì l'intelaiatura delle forze corazzate provocando il ritardo con cui si progettò affannosamente il carro medio, quando alla vigilia della seconda guerra mondiale apparve assoluta la sua necessità.

Questo tragico errore d'improvvisazione fu pagato con un pesante contributo di sangue e con la dolorosa sconfitta di Beda Fomm nella quale "Il complesso corazzato di cui godevano gli italiani fu impiegato nel peggior modo possibile perché ogni battaglione di carri M. 13/40 attaccò per conto proprio senza aspettare l'arrivo degli altri per far massa unica, dando così buon gioco ai carri e all'artiglieria britannica che facilmente distrussero i singoli reparti." (2)

LiddelI Hart aggiunge: "Quando sul campo di battaglia scese la notte, 60 carri italiani erano stati resi inservibili, […] altri 40 carri italiani furono trovati abbandonati la mattina seguente. Venuta meno la protezione dei carri armati, i fanti e gli altri soldati italiani, ormai inermi, si arresero in massa." (3) La storia e i giudizi degli storici sono fatti di tanti tasselli. Nessuno osservò che l'addestramento degli sconfitti di Beda Fomm era stato nel migliore dei casi di una settimana alla scuola di Bracciano.

Il Fiat 3000
Il Fiat 3000, ideato nel 1920 ed entrato in servizio nell'anno successivo, fu considerato una "buona imitazione" del Renault FT 17, di cui aveva un motore più potente, dall'ingegnere polacco Ogorkiewicz, poi naturalizzato inglese, considerato una delle massime autorità nel campo dei corazzati, "quasi una fedele imitazione" dal generale Di Breganze e di "notevole perfezionamento" da Angelo  Pugnani. (4)

"Il carro armato mod. 1921 e 1930 è un automezzo armato e corazzato capace di spostarsi e manovrare in terreno vario e molto sconvolto" iniziava l'Istruzione sul carro armato mod. 1921 e 1930 pubblicata dal ministero della Guerra nell'agosto1930. Nella prima parte dell'Istruzione sono dettagliati gli organi e l'armamento del mezzo, nella successiva la manutenzione, la condotta e le riparazioni di campagna, seguite da 28 tavole ed allegati. Il mezzo, pesante in ordine di marcia senza munizioni kg. 5000, aveva una corazzatura d'acciaio al vanadio con uno spessore di 16 mm. ridotta a 8 mm. per la parte superiore e a 6 per il fondo, che assicurava la protezione contro i proiettili di fucileria e mitragliatrici e le schegge di granata. "Sul terreno pienamente favorevole e per breve tempo può anche superare i 20 km all'ora, ma nel combattimento non si può fare assegnamento che su di una velocità media di 5-6 chilometri orari al massimo.", precisa una pubblicazione dell' epoca. (5)

L'autonomia, con un serbatoio di 90 e 85 chilogrammi di benzina, rispettivamente per il modello 21 e il modello 30, era di 8-10 ore. Caratterizzava il carro la coda formata da una larga lamiera sagomata, convessa verso il basso, che aveva lo scopo di allungare l'appoggio sul terreno permettendo l'attraversamento di fossati e trincee non più larghi di metri 1,50, evitando il pericolo di ribaltamento all'indietro. Il mezzo era altresì in grado di "attraversare correnti di acqua profonda sino a 90 cm".

L'armamento era costituito da due mitragliatrici abbinate SIA per fanteria calibro 6,5 con un collimatore disposto fra le due canne con tiro indipendente e puntamento unico. I carri comando di plotone e di compagnia erano armati di un cannoncino da 37/40 semiautomatico, del quale la commissione di collaudo auspicava l'estensione a tutti i mezzi, sistemato in torretta alla destra del capocarro. La dotazione di munizioni era di 96 caricatori con 3840 colpi per le due mitragliatrici e 68 proiettili per il cannoncino.

Il personale addetto a ciascun carro si divideva in un nucleo di combattimento, una squadra carro e un nucleo traino. Il primo era costituito dall'equipaggio del mezzo, stretto in uno spazio estremamente angusto, e dalla squadra carro. I membri dell'equipaggio erano due, il capocarro, ufficiale o sottufficiale e il pilota, caporalmaggiore o caporale. "Il capocarro è il comandante del carro della cui condotta risponde […] il suo primo dovere e titolo di onore [di] essere in qualsiasi evenienza l'animatore del proprio carro […] guida del pilota". Il pilotaggio del carro si basava sul principio che "ove va l'uomo va il carro". Il capocarro aveva un compito particolarmente gravoso dovendo prendere immediate decisioni sulla direzione e sulla velocità del mezzo, che doveva comunicare al pilota con un linguaggio fatto solo di toccamenti, così, ad esempio, stabiliti dal regolamento: "Rallentate: tirare leggermente indietro una o due volte il pilota all'altezza del collo - Accelerate: spingere leggermente in avanti uno o due volte il pilota all'altezza del collo". Inoltre doveva azionare l'arma in dotazione e, se comandante di compagnia, dirigere l'azione di due, tre o quattro plotoni su quattro carri ciascuno.

Le difficoltà di comando erano enormi se si pensa che gli ordini erano impartiti con un'asta di segnalazione in dotazione ai mezzi. L'asta di ferro aveva circa mm. 6 di diametro e una lunghezza di m. 0,65. Lungo l'asta a circa 15 cm. da ogni estremità erano fissati due drappi uno bianco e uno rosso. Mentre per il Fiat 3000 l'asta veniva esposta da un apposito foro praticato nel cielo della torretta per il C.V. 29 era il capocarro che, nei fumi della battaglia sottoposto al fuoco nemico, "all'uopo alzerà quanto necessario il coperchio a cerniera". Questo antiquato sistema mostrerà tragicamente i suoi limiti in guerra: "Era il tenente Bonanni Caione che, giunto nei miei pressi, schizzò fuori dal carro per rendersi più conto della situazione e per ricevere ordini. Perché questi nostri benedetti M 11 non avevano radio a bordo e per collegamento si usava uno strano linguaggio di bandierine con un frasario ridotto a ordini essenziali: alt, avanti, indietro, a destra, a sinistra, rallentare, accelerare. Tutto qui.' (6) Da un manuale inglese, Il reggimento corazzato. Manualetto addestramento militare n. 41 tradotto dal Servizio informazioni esercito (S.I.E.) nel 1940 si apprende che tutti i carri erano dotati di impianti radio: "capaci di comunicare tra loro a distanza entro le quali un reggimento generalmente si dispiega". La squadra carro era costituita da un esploratore, un segnalatore e due zappatori.

Il nucleo traino dal conduttore e dal meccanico dell'autocarro Fiat 18 BLR per il traino del carro fuori del campo di battaglia. Il complesso costituito dall'autocarro e dal carrello era denominato carro rimorchio Fiat 3000. Sull'autocarro prendeva posto il personale in trasferimento per via ordinaria, sui terreni vari l'equipaggio prendeva posto sul carro armato e la squadra carro seguiva o precedeva il mezzo, mentre il nucleo traino restava sull'autocarro. Nel combattimento la squadra traino seguiva la fanteria che operava con il carro accorrendo in soccorso del mezzo se immobilizzato o con feriti a bordo. Il Fiat 3000, sorpassato alla sua apparizione, fu premurosamente offerto dal generale Pariani al comandante del C.T.V. (Corpo Truppe Volontarie), la rispettosa risposta fu: "Circa carri tipo 3000 date caratteristiche rinunzio alt ossequi".

Carro armato veloce C.V. 29
Alla fine degli anni venti si progettò un nuovo carro. Su suggerimento di Cavallero, sottosegretario di Stato alla Guerra, fu scelto il modello inglese Carden Loyd Mk VI della Vickers, all'epoca all'avanguardia nella concezione e costruzione di carri. Fu acquistato in 26 esemplari e battezzato Carro armato veloce mod. 29 e più brevemente C.V. 29. Nell'Istruzione provvisoria sui carri veloci edita nel 1931, il carro era definito "un autoveicolo cingolato e corazzato capace di spostarsi con i propri mezzi rapidamente su strada e fuori strada".

Il mezzo aveva una sagoma leggera, bassa e compatta, evidenziata da un'altezza di appena m. 1,28 e un peso in ordine di marcia, senza munizioni di kg. 1700. Ragguardevole era la velocità, 40 km. su strada, con una autonomia di 100 km. su strada e di due ore su terreni vari. La grande velocità, caratteristica primaria del carro, lo rendeva particolarmente idoneo ad integrarsi nelle truppe celeri, nelle esplorazioni, negli attacchi improvvisi seguiti da rapidi disimpegni. Nelle colonne operava all'avanguardia o nella sorveglianza. Meno atti erano nell'azione di fiancheggiamento della fanteria.

Dei tre principi sui quali si fonda il mezzo corazzato, velocità di scorrimento, corazzatura e armamento sarà una costante dei vertici militari la preferenza per il primo, preferenza concettualmente errata, applicata anche per gli aerei, gli incrociatori leggeri e il naviglio leggero, a scapito dell'armamento e della corazzatura. Nel capo II Istruzione formale erano riportati gli organici e le formazioni di marcia dei reparti. Il plotone era su quattro carri, la compagnia aveva un plotone comando, composto dal carro del comandante e due carri di riserva, e due plotoni carri. Il battaglione aveva in organico il comando, formato da una squadra maggiorità, una squadra radio, una squadra servizi, una squadra riparazioni, un autodrappello e sei compagnie carri.

I carri procedevano in colonna fuori del campo di battaglia con il carro del comandante in testa, in formazione serrata se la distanza era di cinque passi, aperta se di 60. Sul campo di battaglia avanzavano in linea, col comandante del plotone subito dopo il carro di destra e quello del comandante di compagnia al centro dello schieramento. Anche la linea era caratterizzata da una distanza di circa 60 passi. Oltre queste due formazioni solo il plotone poteva assumere quella "eventuale di mezzi plotoni affiancati" col primo mezzo plotone a destra, col carro del comandante in testa, seguito dal primo carro del plotone e col secondo e il quarto a sinistra. I movimenti avvenivano per imitazione o seguendo i segnali del comandante.

Quando si legge che "la compagnia viene impiegata unita solo in casi particolari di situazioni e di disponibilità di carri" e che "l'impiego del battaglione tutto riunito è eccezionale", si avverte come allo stato maggiore non sfuggissero le pesanti difficoltà che gravavano sui comandanti, i quali dovevano guidare reparti di numerosa consistenza con l'aiuto di aste inalberate sui carri, privi come erano di apparecchi di radiotelegrafia. Vengono alla mente le compatte, gigantesche formazioni corazzate sovietiche e germaniche che nelle pianure dell'Est si muovevano, si dispiegavano ed entravano in combattimento, seguendo gli ordini trasmessi per l'etere.

Il C.V. 29 e i suoi successori degli anni trenta erano, in effetti, una coppia di mitragliatrici mobili protette dal fuoco delle armi portatili e dalle schegge, con una visibilità in avanti per la sua altezza molto ridotta e posteriore quasi nulla. L'equipaggio era quindi costretto ad aprire gli sportelli per avere una migliore visibilità, minima se chiusi, esponendo il volto e il petto ai proiettili nemici. Le corazze, sarà una caratteristica di tutta la linea dei corazzati italiani, erano imbullonate e non saldate, con gravi difetti di resistenza ai colpi, che furono evidenziati nel corso delle operazioni in Africa Settentrionale. Il ridotto brandeggio delle armi rendeva il mezzo assai vulnerabile ad attacchi da tergo che non potevano essere fronteggiati, come si evidenziò nel conflitto etiopico dove più volte armati abissini, dopo aver reso inutilizzabili con grosse pietre le armi, trucidarono l'equipaggio ridotto all'impotenza.

Le valutazioni dopo la campagna etiopica furono negative. Autonomia insufficiente, mancanza d'armamento posteriore, sospensioni delicate per le quali la velocità su terreno vario non doveva superare i sette chilometri, sarà la stessa velocità media nel deserto libico anche dei carri M più moderni, irrisoria se paragonata ai 20 dei carri tedeschi. Rassicuranti furono le risposte degli organi tecnici. Il carro sarebbe stato migliorato e per l'armamento posteriore sarebbero state predisposte feritoie dalle quali l'equipaggio, composto sempre da due uomini, avrebbe potuto difendersi con le pistole in dotazione. Ma una circolare del giugno 1936 definiva con inusitata franchezza le caratteristiche del carro. "Il carro veloce vede poco, se fermo diventa facile preda dell'insidia, se sorpreso è perduto".

I carri leggeri italiani, che Rommel definì lapidariamente "ridicoli" e il generale inglese Fuller "les plus insignifiants d'Europe", trovarono nel secondo dopoguerra dei tardi difensori d'ufficio che parlarono d'uso non appropriato del mezzo destinato alla guerra di montagna e non a quella del deserto. Ma le "scatole di sardine", come erano chiamate dagli equipaggi, dimostrarono i loro limiti anche nella guerra di montagna. Nell'attacco al forte di Tavernette del 23 giugno 1940, l'artiglieria francese li inchiodò sulla strada di accesso e sul montuoso fronte albanese nei caotici, confusi combattimenti contro i Greci i risultati furono mediocri. Avendo a modello questo carro dalla cooperazione tra la Fiat e l'Ansaldo, che ebbero sempre il monopolio dei corazzati, nacque nel 1933 il Carro Veloce 33 che costituirà l'ossatura delle unità corazzate degli anni trenta e che, attraverso una forma d'assuefazione psicologica, farà maturare l'idea che il carro leggero fosse il carro per antonomasia.

Nello stesso periodo, esempio del gap tecnologico che divideva l'Italia dalle grandi potenze europee, in Germania tre società la Krupp, la Man e la Rheinmetall studiavano le caratteristiche di un carro il Panzerkampfwagen modello IV armato di un cannone da 75 mm. e pesante 24 tonnellate.

La dottrina, i regolamenti, le circolari
I primi riferimenti ai corazzati nella dottrina si ebbero nel 1918, con le circolari dello stato maggiore n. 6789 del dieci marzo L'impiego delle tank e la difesa contro di esse e n. 40.763 del venti aprile Note relative alla difesa contro le tank, largamente ispirate alla normativa britannica, alle quali si aggiunse la n. 1070 del 24 ottobre 1918 Istruzioni e norme sull'impiego delle squadriglie di automitragliatrici blindate e delle motomitragliatrici.

Paventando una sorpresa tattica, un improvviso attacco di carri armati pur non in dotazione all'esercito austroungarico, s'impartivano chiare disposizioni focalizzando l'azione dei difensori sulla necessità di dividere le forze attaccanti, concentrando il fuoco dell'artiglieria sui mezzi, intercettando la fanteria di accompagnamento con le armi automatiche e portatili e attribuendo la massima importanza all'ostacolo passivo.

Nelle Direttive per l'impiego delle grandi unità del settembre 1918, le due armi venute alla ribalta nel corso delle ostilità, l'aviazione e il carro armato, furono valutate in un'ottica diversa. Per l'aviazione si valutò con sufficiente chiarezza l'apporto che l'arma avrebbe dato alla battaglia futura, mentre il carro fu considerato un mezzo sussidiario d'attacco con una valutazione molto sfumata.

L'esperienza bellica fu rapidamente trasfusa dai nostri alleati in vari regolamenti nei primissimi anni del dopoguerra. In Francia il Projet de règlement de manœuvre des unités de chars légers e l'Instruction provisoire sur l'emploi des chars de combat comme engine d'infanterie sono del 1920, il Règlement sui carri armati pesanti del 1921. In Gran Bretagna il Tank training (Provisional) fu edito nel 1920 e negli Stati Uniti le pubblicazioni Tanks corps preliminar training, Tanks drill, Tanks corps technical training, Tanks armament and its use addirittura del 1919.

In Italia il silenzio dottrinale continuerà fino al maggio 1925, quando a cura del Riparto carri armati sarà edito l'Addestramento delle unità carriste - Terza parte - Addestramento ed impiego tattico (Stralcio di regolamento provvisorio), uno smilzo volumetto di 56 pagine edito dalla Libreria di Stato, opera del comandante del Riparto colonnello Enrico Maltese. Il regolamento che nella brevissima Avvertenza statuisce subito il postulato che i carri armati "combattono in intima cooperazione" con la fanteria, principio del resto accolto in tutte le dottrine degli anni venti, è diviso in due capi, il primo Generalità sull'impiego dei carri armati e il secondo Addestramento al combattimento per i carri armati Fiat 3000.

I Carri leggeri nei Principi generali del capo primo erano "essenzialmente destinati a sussidiare l'avanzata delle Fanterie con diretta cooperazione" o con azione di fuoco "o paralizzando con la loro stessa presenza (assai demoralizzante per l'avversario)". Per le loro caratteristiche potevano spingersi in avanti nell'inseguimento, presidiare posizioni difensive, fare parte di reparti celeri. I carri armati pesanti erano riservati ad azioni contro linee "più potentemente organizzate", che dovevano sfondare con il loro peso e con l'armamento più pesante di cui erano dotati, "in stretta cooperazione di artiglieria", aprendo in più punti dei varchi all'irruzione della fanteria e dei carri leggeri. In pratica non erano in dotazione all'esercito e non lo saranno per i prossimi 13 anni, quando assumeranno il più corretto termine di carro medio.

Caratteristiche dell'azione erano la sorpresa da ricercarsi sempre, un impiego a massa su larga fronte ma limitato nel tempo, lo scaglionamento in profondità, l'immediato ripiegamento dopo l'azione "in ordine e alla mano del proprio comandante", un'accurata ricognizione del terreno per accertarne natura ed ostacoli. La cooperazione con le altre armi era compito primario dei corazzati, "in particolare modo" con la fanteria che dovevano sostenere nell'attacco in stretta unità di intenti e con un affiatamento totale che "ridurrà al minimo la necessità di segnalazioni". Velocità, sorpresa e aggressività caratterizzavano il carro nel combattimento, nel quale andava alternata l'azione di schiacciamento dell'ostacolo a quella di fuoco, razionalizzata tenendo conto del ridotto munizionamento delle armi. I mezzi, considerando l'azione isolata "poco efficace", dovevano attaccare a gruppi diradati sul terreno per sottrarsi al fuoco dell'artiglieria ma a distanza visibile per manovrare in cooperazione.

L'unità carrista elementare era la sezione che non poteva essere divisa ulteriormente e che operava sempre unitariamente. Alla necessità del disimpegno e del riordinamento dei mezzi dopo il combattimento si dava ancora spazio in tre articoli. Era la fanteria che "impegnata anche il proprio onore" doveva subentrare ai carri giunti sull'obiettivo, allo scopo di permettere loro il disimpegno. Il capo secondo era incentrato sull'unico carro in dotazione il Fiat 3000 e sul suo impiego nel combattimento. Premesso che l'affiatamento tra il capocarro, "egli deve anzitutto prendere un indiscusso ascendente morale sul pilota" e quest'ultimo doveva essere perfetto e che compito primario del comandante della squadriglia e del gruppo era la cura di tale affiatamento, si ribadivano le norme di combattimento: azione di massa, intesa come schiacciamento dell'ostacolo, corroborata dall'immediato intervento della fanteria e di fuoco, sempre limitato e dosato nel tempo per la ribadita scarsità di munizioni in dotazione.

La lotta contro i carri avversari doveva essere "di norma" riservata "all'artiglieria e armi speciali" ma, se i carri avversari investivano la fanteria, i Fiat 3000 dovevano ingaggiare combattimento generalmente col fuoco, e "in casi eccezionalmente favorevoli con l'urto", portato possibilmente sui cingoli per immobilizzarli, continuando poi nell'azione non prima però di aver tentato di mettere fuori combattimento l'equipaggio, operazione che se riuscita era definita "considerevole successo". I collegamenti tra i mezzi, a sette anni dalla fine della guerra nella quale gli inglesi a Ypres attaccarono con grandi formazioni che incorporarono 44 carri armati di collegamento dotati d'apparecchi ottici o radiotelegrafici e le compagnie carriste francesi avevano in organico un carro armato con apparecchio radiotelegrafico, erano ancora affidati a segnali manuali. Il problema delle comunicazioni via radio non fu impostato dallo stato maggiore, né fu trattato dalla pubblicistica militare. Per la colorazione dei mezzi non si fornivano indicazioni, ma ci si limitava a parlare "di un appropriato mascheramento". Con una circolare del successivo 4 giugno 1925 il ministero della Guerra fisserà il colore ufficiale, un grigioverde ottenuto con una miscela d'oltremare azzurro, bianco di zinco, terra gialla di Roma e nerofumo.

Nella difesa non vi era spazio per i carri salvo che per eventuali contrattacchi in quanto "l'azione della sezione è sempre offensiva". Il comandante della sezione era agli ordini del comandante della compagnia o del reggimento di fanteria il quale fissava gli obiettivi, costituendo la sezione "elemento integrale" del reparto, subordinazione che sarà poi ribadita dalle Norme generali per l'impiego delle grandi unità (N.G.) del 1928. La ricognizione del terreno era considerata indispensabile per ogni azione, anche nella guerra di movimento. In linea generale non erano stabilite norme per l'avanzata dei carri, che potevano seguire, precedere o accompagnare la fanteria, mai sostando nella zona battuta dal fuoco dell'artiglieria nemica.

La sezione, per la quale non era prevista una formazione d'attacco standard, "deve ad ogni costo mantenersi riunita". L'azione di massa, ossia lo schiacciamento dell'ostacolo per aprirsi un varco, poteva essere o in colonna con il caposezione in testa o su tre direttrici. Per quella di fuoco si raccomandava la prudenza per non colpire truppe amiche e per la già ricordata scarsità di munizioni, l'alternarsi nell'attacco evitando le soste collettive, le manovre sul rovescio, grande spirito d'iniziativa e d'aggressività. I contrattacchi nemici, tesi a dividere le truppe dai carri lanciati all'attacco, andavano da quest'ultimi fronteggiati proteggendo col fuoco e con la sagoma dei mezzi la fanteria. La cooperazione dei carri doveva essere curata al massimo con reciproche manovre di disimpegno. Se l'impiego primario era la collaborazione con la fanteria, in via subordinata il mezzo poteva effettuare azioni d'avanguardia in manovre esplorative e di retroguardia per contrastare con una resistenza dinamica, imperniata sul fuoco, l'avanzata nemica, in azione di frenaggio e protezione di truppe amiche in ripiegamento.

Sulla squadriglia, composta da un numero imprecisato di sezioni, il discorso è più sfumato, la cooperazione con la fanteria è sempre "diretta", poteva agire riunita con il comandante che "tiene riunite e alla mano le sue sezioni" o a scaglioni con il comandante che dirigeva la seconda sezione. Per tutte le altre manovre, il comandante si rimetteva alle norme stabilite per le sezioni. L'impiego tattico del gruppo, costituito da più squadriglie era a carattere eccezionale e, "in attesa di una maggiore esperienza", non si fissavano norme.

La pubblicistica
La pubblicistica e la stampa militare degli anni venti manifestarono un interesse marginale per le problematiche create dalla nuova arma che nei paesi militarmente più avanzati era al centro di grandi, appassionati dibattiti. I difensori dell'arma furono pochi e senza grande peso. Il Marazzi nel 1919 scriveva: "Siamo alla vigilia di una rivoluzione tecnica perciò la trincea scavata nel terreno e immobile cederà il posto alla trincea mobile, consistente in una massa di carri schierati, formante una linea di scudi intercalati da cannoni e da altri ordigni di distruzione." (7)

Il colonnello Noè Grassi, comandante del Riparto carri armati nel 1923, in una conferenza tenuta alle Scuole centrali di fanteria, artiglieria e genio dello stesso anno patrocinava carri leggeri per l'esercito e sensatamente avanzava ipotesi alternative alla guerra sulle Alpi, che pure, a suo giudizio, non escludeva i corazzati. Scenari bellici potevano essere: "Una guerra oltremodo fortunata che ci porti di un balzo al di là della cerchia alpina; di per contro una guerra per contro così sfortunata che ci costringa a manovrare nella pianura padana; di una guerra che richiede il nostro concorso sotto forma di aiuto a un esercito alleato che operi in zone accessibili ai carri d'assalto […] opportunità d'integrare l'opera della flotta, dei sottomarini e degli idroplani per la difesa delle nostre coste." (8)

Il colonnello G. Miglio del Riparto carri armati nel 1924 aggiungeva che in Italia esisteva una situazione d'attesa se non di sfiducia nei confronti della nuova arma, alla quale occorreva invece dare "il suo vero e giusto valore" (9) in quanto il carro faceva risparmiare "il sangue della fanteria" e ancora il colonnello carrista Giulio Invernizzi nello stesso anno ribadiva che la fanteria: "non può non avvantaggiarsi nella sua faticosa azione del concorso del carro armato" arma "di grande efficacia morale." (10)

Nel 1925 Angelo Gatti scrittore, giornalista, esperto e storico militare propugnava vigorosamente su Il Corriere della Sera lo sviluppo dei corazzati auspicando che il Riparto carri armati fosse solo "il nocciolo di un più grosso corpo" (11), nel 1928 Aldo Valori riconosceva che "la questione dei carri armati, [che] è fra tutte quella più lontana dall'aver ricevuto una soluzione definitiva" e, in seguito, "hanno una organizzazione a se essenzialmente potenziale" (12) e nell'anno successivo Varo Varanini poteva solo fare un rapido accenno al problema perché "nemmeno l'impiego esperimentale di recente nelle esercitazioni del Canavese ci permette di concretare come e in quale misura potrà quest'arma affermarsi presso di noi." (13)

I lavori dei tre autori che trattarono più a lungo il problema, il capitano di fanteria Manlio Gabrielli, il colonnello Enrico Maltese e il colonnello Edoardo Versè, non si discostarono da un prudente conformismo.

Il Gabrielli, la cui opera è del 1923, dopo una lunghissima analisi delle operazioni condotte dai carri nel corso dell'ultimo conflitto, osservato che "il carro armato figurò quasi sempre come strumento bellico" nel corso della storia e che suonava quindi strana "la profonda meraviglia suscitata da tale strumento di guerra", riassumeva i criteri d'impiego maturati nel conflitto. Nell'attacco impiego a massa su vasti fronti, scaglionamento in profondità, cooperazione con la fanteria e l'artiglieria per l'apertura dei varchi nei reticolati e successiva distruzione dei centri di resistenza. Nella difensiva, imperniata su ostacoli passivi, il carro doveva essere fronteggiato da un fante "provvisto di nervi solidi" e cannoni "nemici irriducibili dei carri armati". L'autore, dopo un brevissimo giro d'orizzonte sulle opinioni d'autori francesi, italiani e tedeschi, non considerando quelli inglesi di cui ignorava le avanzate teorie, prudentemente concludeva che non era possibile valutare il peso e l'incidenza della nuova arma in una guerra futura, ripiegando sulla tesi che sarebbe stata sufficiente la costituzione di un centro di studi e d'esperienze per i carri "non essendo ancora possibile prevedere se sopravviverà né, d'altra parte, fin dove giungerà il suo sviluppo e il suo perfezionamento." (14)

Il colonnello Maltese, comandante del Riparti carri armati dal 1924 al 1926, nel suo I carri armati e il loro impiego tattico, (15) esordì accomunando i carri armati alle armi chimiche, armi nate dalla necessità di risolvere il problema tattico maturato nella prima guerra mondiale. Divideva i mezzi in quattro categorie: grandissimi (40-50 tonnellate), pesanti o grandi o di rottura (25-40 tonnellate), medi (15-20 tonnellate) e leggeri o d'assalto o d'accompagnamento (meno di 15 tonnellate). Esposte e rifiutate le opposte teorie, arma priva di valore bellico o arma assoluta, concepiva il mezzo come sostituto dell'artiglieria per un migliore e più preciso supporto di fuoco di fiancheggiamento "in costante contatto" con la fanteria avanzante, con una cooperazione studiata e preparata accuratamente. Immancabili sono i richiami alle caratteristiche negative dell'arma, ma va ad onore di Maltese la sua capacità di "vedere", sia pure con qualche perplessità, le proiezioni future del carro armato.

Nello stesso anno il colonnello Versè, addetto alla Scuola di applicazione di fanteria, nella sua opera, dopo un sunto sull'impiego dei carri nella guerra "non fu né decisivo né notevole", fatto un excursus storico sugli antenati dell'arma nel quale sono evidenziati quelli italiani con l'immancabile richiamo a Leonardo da Vinci, esaminava le caratteristiche del mezzo, escludendo che potesse sostituire la fanteria o la cavalleria, teorie sostenute dai "malati di tankite." (16) Anche gli autori che trattano dei problemi militari in opere generali, non si discostano da valutazioni sostanzialmente negative.

Il colonnello Ettore Bastico, autore di un'interessante opera L'evoluzione dell'arte della guerra, nel terzo volume, La guerra del futuro, dopo aver sottolineato il grande apporto dei carri alla vittoria alleata, non si discostava dalla tesi del carro ausiliario della fanteria.

Più riduttivo fu il generale Claudio Trezzani, docente di tattica alla Scuola di Guerra nel 1923. Nelle lezioni svolte, raccolte poi in un  volume (17), liquidò i carri armati in otto righe non essendo ancora possibile stabilire "se e in quale misura" potevano far parte della divisione di fanteria nel combattimento. In un manuale pubblicato nel  1929 (18) ritornerà sull'argomento allineandosi alla dottrina ufficiale, aggiungendo che "nel caso di guerra in terreno libero le loro possibilità sono molto ridotte". Del suo operato come capo di stato maggiore e vicegovernatore dell'Africa Orientale Italiana si scrisse "mentre, infatti, non c'è dubbio che Rolle e i suoi uomini fossero ben preparati [si trattava di un gruppo al comando del colonnello Rolle che doveva effettuare una puntata in profondità nel Sudan inglese] non è plausibile la stessa preparazione da parte dello Stato Maggiore dell'A.O.I., a capo del quale c'era il generale Claudio Trezzani rinomato stratega di cattedra, ma che non aveva la più piccola esperienza dell'Africa." (19) Queste critiche e le sue concezioni dell'arma del futuro non gli tarparono la carriera perché, successivamente, raggiunse la carica di capo di stato maggiore generale dal maggio 1945 all'aprile 1948, data nella quale assunse la nuova denominazione di capo di stato maggiore della Difesa, che conservò fino al dicembre 1950. Ma la personalità di un uomo ha sempre aspetti diversi e contradditori. Trezzani alla riunione del 22 novembre 1937, organizzata dal capo di stato maggiore dell'esercito generale Pariani, convinto fautore della trasformazione della divisione ternaria in binaria, sarà uno degli otto generali su 65 che si batterà coraggiosamente contro il nuovo ordinamento, vedendone con lucidità i difetti.

Il colonnello Rodolfo Corselli fece sue le teorie ufficiali, negò al carro anche la possibilità di tenere il passo con le truppe lanciate all'inseguimento e ritenne l'arma, nata nella guerra di posizione, addirittura di "minore impiego" (20) in quella di movimento. Nelle riviste militari non ci si discostò da questi orientamenti: "Aiuto fugacissimo alla fanteria" (21), "Strumento inevitabilmente vulnerabile" (22), "Difficoltà di manovre insormontabili su molti terreni" (23). Si legge in una raccolta di conferenze tenute alle Scuole centrali di fanteria nel 1920 "non possono mai sostituire la fanteria, […] non potrà mai sostituire la cavalleria […] l'impiego richiede molte cautele", la Rassegna dell'esercito aggiunse: "mezzo ausiliario" (24) e, di rincalzo, La Cooperazione delle Armi, considerata una delle riviste più stimolanti del periodo, "si ha l'impressione che sia verso la sua traiettoria discendente." (25)

Al vastissimo coro si unì l'Enciclopedia militare che alla voce "carro da guerra", inizia con una stereotipata analisi del mezzo nel corso dei secoli con disegni relativi che vanno dai carri descritti nel libro dei Maccabei al carro d'assalto dell'ingegnere Agostino Ramelli del 1588 passando per quelli di Leonardo da Vinci, traccia una breve storia di quelli che parteciparono alla Grande Guerra, concludendo che la dottrina militare "non ha ancora definito i concetti della tattica del carro armato". I concetti nebulosi dell'Enciclopedia sono evidenziati da una fotografia con la didascalia "carri armati inglesi" in cui si vedono trattori cingolati trainanti pezzi d'artiglieria.

Fino al 1925 i carri armati occuparono un certo spazio nelle riviste militari, ma nell'arco temporale che va dal 1925 al 1930 il silenzio fu quasi completo. La Rivista militare italiana, ripresa la pubblicazione nel 1927, non stampò nessun articolo sui carri fino alla soppressione nel 1933.

La parola definitiva sulla nuova arma è quella di Pietro Badoglio, capo di stato maggiore generale, il cui ascendente non era inferiore a quello del maresciallo Pétain in Francia. Dopo aver evidenziato che i carri in dotazione "sono di modello assai sorpassato", aggiunse "La natura del nostro terreno limita molto l'impiego dei carri armati, e quindi la deficienza o anche la mancanza di essi non ha per noi tutto quel peso che avrebbe per altri Paesi, ad esempio Francia e Germania. Si può quindi attendere con calma" (26), virtù che gli era congeniale.

Dal rapporto del servizio informazioni dell'esercito Notizie riassuntive sull'attività militare dell'Inghilterra nel 1930, che gli fu sottoposto, dimostrava di essere pienamente a conoscenza dello sviluppo dell'arma corazzata e dei modelli di carri e artiglierie in progettazione, ma non ne traeva nessuna conseguenza.

L'incapacità di valutare l'arma non cambiò nel tempo.

Nel 1937 il generale Enrico Caviglia, considerato una delle poche teste pensanti del Regio esercito, scriveva "Oggi con mezzi vari si arrestano i carri armati. In Ispagna e in Etiopia nella guerra di movimento non hanno sempre fatto buona prova. Cadono in imboscate e sono facilmente immobilizzabili." (27) Nello stesso anno il generale Heinz Guderian dava alle stampe Achtung Panzer! Nel 1939 il colonnello d'artiglieria Michele Amaturo nel suo volume Scienze militari della prestigiosa collana Enciclopedia scientifica monografica italiana del XX secolo, su un totale di 615 pagine ne riserva quattro ai carri armati e nessuna alle autoblindo e dei 131 titoli riportati nella bibliografia "limitata alle principali opere italiane di carattere scientifico-militare pubblicate nell'attuale secolo" nessuno ai corazzati.

Ancora il generale Giacomo Carboni, futuro comandante del corpo d'armata che non difenderà Roma nel settembre 1943, sosteneva "sarà bene guardarsi dalla illusione che il problema del movimento sul campo di battaglia possa venire risolto mediante quel grosso e delicato ordigno che è il carro armato", aggiungendo una personale intuizione "Ricordiamo che il carro armato non è una novità; già molti eserciti antichi, in epoca di declino, per supplire coi mezzi materiali alla scaduta qualità combattiva dei loro guerrieri, usavano carri falcati, carri corazzati e carri di urto".

L'esame del Regolamento del 1925 e della pubblicistica "carrista" evidenzia lo scetticismo, le perplessità e le prevenzioni che la nuova arma suscitava e alla quale, non afferrandosene potenzialità operativa e flessibilità tattica, nella migliore delle ipotesi si assegnava il ruolo di comprimario della fanteria con il compito prioritario di fiancheggiarla nell'attacco. Ma anche questo compito è malamente svolto se in una circolare del gennaio 1926, riportata ne La Cooperazione delle armi dell'aprile dello stesso anno, il capo di stato maggiore generale, dopo aver esaminato le principali manovre dell'anno 1925, rilevata la mancanza di "intima cooperazione" tra fanteria e carri armati, stabilì "Frequenti esercitazioni in comune, preparate sulla base di accordi precisi".

"L'intima cooperazione" non fu evidentemente raggiunta se nella guerra di Spagna se ne lamentava ancora la mancanza: "Ciò che ha difettato ancora è la cooperazione tra fanteria e carri assalto". Eppure coniugando la potenza dell'armamento con mobilità e protezione, sia pure all'epoca allo stato embrionale, il carro armato costituiva un sistema d'arma duttile ed efficace e il suo supporto era indispensabile alla fanteria nell'attacco allo scopo di ridurne i termini d'investimento delle trincee. Non si percepivano nemmeno le possibilità di costituire l'ossatura della difesa, la capacità di ostacolare, logorare la progressione avversaria in qualsiasi condizione ambientale e se n'evidenziavano continuamente i limiti che erano solo contingenti e suscettibili di miglioramenti con lo sviluppo tecnico. Tali limiti erano ribaditi dalla dottrina ufficiale degli anni venti: mezzo costosissimo e vulnerabile, grande logorio degli organi meccanici e dell'equipaggio, frequenti avarie, scarsissima visibilità, velocità e autonomia limitate, modesto munizionamento, bersaglio ben visibile.

I fattori che incidevano su questa sorda, istintiva, preconcetta opposizione erano molteplici. Pesava sul carro l'esser stato concepito come la soluzione di un particolare problema tattico, problema che con i nuovi procedimenti tattici maturati verso la fine della guerra sembrava superato. La mancata esperienza bellica unita al provincialismo culturale, alle ristrettezze dei bilanci, all'arretratezza culturale aggravata dall'anchilosato status mentale non creò una generazione di ufficiali carristi, non fece emergere dei capiscuola come avvenne in Francia e in Gran Bretagna e, nel decennio successivo, in Germania. La classe militare non riuscì ad interpretare lo sviluppo tecnologico-industriale che rendeva sempre più incisivo il potenziale bellico che l'arma poteva offrire. Gli ufficiali si muovevano al passo della fanteria e, dopo il 1925, la trasformazione dello stato liberale nella dittatura fascista sconsigliava, nel clima di conformismo creatosi, di assumere posizioni critiche che, in verità, non avevano mai avuto una gran diffusione nell'esercito italiano. "The Italian army had not tradition of internal criticism" (28) scriveva lo storico statunitense John J. T. Sweet.

Il clima era evidenziato dalla presentazione del primo numero della Rivista militare Italiana nel gennaio 1927: "Libertà di discussione, adunque, e ospitalità per tutti coloro che hanno idee sane da esporre e una fede da affermare, ma non per chi intendesse fare della Rivista campo di infruttuose esposizioni e polemiche". Fuller, de Gaulle e Guderian non avrebbero avuto vita lunga nell'esercito dell'Italia proletaria e fascista.

I corazzati all'estero
Anche per la dottrina ufficiale francese il carro armato era un mezzo ausiliario della fanteria. Esisteva, però, una scuola di pensiero capeggiata dal generale Jean Baptiste Estienne, organizzatore dell'aviazione militare, fondatore dell'Artillerie d'assault il quale, pur uscendo sconfitto dalla lotta per la conservazione dell'arma corazzata, sciolta il 13 maggio 1920 e assegnata alla fanteria con la nuova definizione di Chars de combat, fu un punto di riferimento per molti ufficiali, tra cui uno sconosciuto colonnello Charles De Gaulle, che, nel decennio successivo, avrebbe ingaggiato un aspro duello con lo sclerotizzato stato maggiore. Ad Estienne si fa risalire la paternità della nuova arma di cui espose le possibilità al generalissimo Joffre. Va riconosciuto che il capo dell'esercito ne afferrò subito le possibilità e dispose l'immediata progettazione e costruzione di ben 400 carri modello Schneider.

La filosofia d'Estienne fu evidenziata in una celebre conferenza tenuta il 7 maggio 1921 a Bruxelles alla presenza del re, ove paragonò la comparsa del carro armato a quella della polvere da sparo e tracciò un vivido quadro di quello che sarebbe stato il peso del carro nel futuro. « A mon avis, cette apparition [del carro] bouleversera bientôt dans leurs fondements séculaires, non seulement la tactique, mais encore la stratégie, et - par suite - l'organisation des armées ». Estienne, direttore degli studi sui carri dal 1921 al 1926, si battè per la creazione di una divisione dalla grande mobilità tattica, meccanizzata, autonoma e indipendente, nella quale dovevano coesistere carri armati, artiglieria semovente e fanteria meccanizzata. Uomo dotato d'intuizioni geniali fu fra i primi ad afferrare la necessità della cooperazione tra l'arma corazzata e l'aviazione.

In Gran Bretagna, la cosiddetta Giovane Scuola, formata dai fautori dei mezzi corazzati, si battè in una concezione diversa, per un piccolo esercito completamente meccanizzato sintetizzato nella formula "All tanks theory". Avendo come esponenti ufficiali prestigiosi come Fuller, Martell, Pile, Croft e Broad e uno studioso d'altissima fama, lo storico Liddell Hart, riuscì ad imporre al War office, sia pure temporaneamente i suoi criteri tattici. Fu così costituita la Forza meccanizzata esperimentale, composta da un gruppo di esplorazione su due compagnie di autoblindo e una di cingolette al quale si aggiungeva un battaglione di 48 carri Vickers medi, un battaglione mitraglieri motorizzato, un reggimento di artiglieria con alcuni semoventi armati di cannoni da 18 libbre, una compagnia genio motorizzata, un battaglione di fanteria motorizzato e una squadriglia di aerei.

Il primo maggio 1927, per la prima volta nella storia, una formazione completamente meccanizzata, autonoma e indipendente manovrò nella piana di Salisbury. Il giudizio di Aldo Valori, affermato studioso militare, fu completamente negativo: "Un genere di guerra eminentemente aristocratica e perciò contrario allo spirito della guerra moderna che è anzi di massa e dove tutti i cittadini debbono, col minimo possibile di mezzi dare il massimo contributo alla comune vittoria." (29)

In Germania il nuovo sistema d'arma fu valutato con ponderatezza. Il generale Federico von Bernhardi, accreditato storico militare, nel gennaio 1920 espresse il suo cauteloso, prudente giudizio. Con l'immancabile richiamo agli elefanti di Pirro e alla reazione dei Romani, riconobbe che "mercè loro [l'Intesa] ottenne inizialmente grandi effetti di sorpresa […] costituiscono un mezzo d'attacco tutt'altro che disprezzabile […] un mezzo d'attacco efficace […] la loro azione risulta essenzialmente morale". Il tutto correlato da notevoli perplessità e dalla sicurezza che "la loro natura esclude che esse possano agire difensivamente". Furono però gli stessi tedeschi a mettere a punto gli studi, le teorie, le esperienze degli anni venti. Un oscuro ufficiale Heinz Guderian, dotato di geniali concezioni strategiche che ne faranno uno dei più grandi condottieri del secondo conflitto mondiale, concepì un complesso indipendente e pluriarmi, del quale i carri armati costituivano il nocciolo duro, che si muoveva all'uniforme velocità dei motori con una fanteria tutta motorizzata.

La fine degli anni venti
Alla fine degli anni venti le forze corazzate erano ben poca cosa. Pochi carri riuniti in un solo reggimento, con un modello, il Fiat 3000, definito antiquato nel 1925 e radiato nel 1929, un altro il C.V. 29 concettualmente sbagliato. Nessun peso nell'opinione pubblica, scarso interesse nelle alte sfere militari, poco spazio nella pubblicistica costituisce il bilancio di un decennio di politica nel campo dei corazzati. Nell'agosto 1939 il generale von Rintelen, che assisté alle grandi manovre nella valle del Po, valutò l'arma corazzata "in der Kinden Schuvhen", letteralmente "nella scarpa del bambino", ossia ai primi passi. Il prezzo sarà pagato nel novembre 1942, quando la divisione corazzata Ariete combatterà per l'ultima volta, sempre in condizioni di tragica inferiorità, contro i corazzati dell'Ottava armata ad el Alamein.

Annotava Rommel nei suoi Rommel papers. "A Sud e a Sud-Est del quartiere generale, si possono vedere enormi nuvole di sabbia: là si sta svolgendo la lotta disperata dei piccoli e inefficienti carri del XX Corpo contro cento o giù di lì carri armati pesanti britannici che hanno aggirato il loro fianco scoperto. Il maggiore von Luck, inviato da me col suo battaglione a chiudere la breccia fra il corpo italiano e quello tedesco, mi ha riferito più tardi che gli italiani che allora costituivano la nostra forza motorizzata più grande, hanno combattuto con esemplare coraggio. Von Luck diede coi suoi cannoni tutto l'appoggio possibile, ma non potè evitare il destino del corpo corazzato italiano. Uno dopo l'altro i carri vennero squarciati in due o bruciati, mentre un tremendo fuoco di sbarramento inglese spazzava le posizioni della fanteria e dell'artiglieria italiane. Gli italiani […] combatterono con straordinario valore. Ricevemmo l'ultimo messaggio radio dell'Ariete alle 15,30 circa. - Carri armati nemici fanno irruzione a sud dell'Ariete, con ciò Ariete accerchiata. Posizione 5 km. Nord-ovest Bir El Abd. Carri Ariete combattono".

Uomo di guerra durissimo nei suoi giudizi tracciò l'epicedio della forza corazzata italiana. "Con l'Ariete perdemmo i nostri più anziani camerati italiani ai quali, bisogna riconoscerlo, avevamo richiesto sempre di più di quanto erano in grado di fare con il loro cattivo armamento".

Note
 1. Gallinari Vincenzo. L'esercito italiano nel primo dopoguerra. Roma 1980.
 2. Ogorkiewicz Richard M. I corazzati. Roma 1964.
 3. Liddell Hart, Basil. Storia militare della seconda guerra mondiale. Milano 1991
 4. Pugnani Angelo. Storia della motorizzazione italiana. Torino 1951.
 5. Di Nisio Ismaele. I carri armati nel combattimento. Roma 1931.
 6. Bigonzoni Gabriele. Ex uomini. Roma 1956.
 7. Marazzi Fortunato. La nazione armata. Roma 1920.
 8. Grassi Noè. Carri armati. Tattica delle varie armi. Conferenze svolte alle Scuole centrali di fanteria, artiglieria e genio. Roma 1923.
 9. Miglio Giuseppe. I carri d'assalto in Francia. La cooperazione delle armi. 1924.
 10. Invernizzi Giulio. Considerazioni sul valore, l'ordinamento e sull'impiego tattico dei carri d'assalto. La cooperazione delle armi. 1924.
 11. Gatti Angelo. I carri d'assalto. Corriere della sera. 1 marzo 1924.
 12. Valori Aldo. La ricostruzione militare. Roma 1930.
 13. Varanini Varo. La ricostruzione fascista delle forze armate. Milano 1929.
  14. Gabrielli Manlio. I carri armati. Roma 1923.
 15. Maltese Enrico. I carri armati e il loro impiego tattico. Civitavecchia 1925.
 16. Versè Edoardo. I carri d'assalto. Parma 1925. 
17. Trezzani Claudio. L'impiego della divisione nel combattimento. Torino 1924.
 18. Trezzani Claudio. Manuale di tattica e servizio in guerra. Roma 1929.
 19. Goglia Luigi. La guerra in Africa nel 1940. Roma 1994.
  20. Corselli Rodolfo. Tattica moderna e altri elementi d'arte militare. Palermo 1924. [
 21. Grazioli Francesco Saverio. Saggio sull'evoluzione della dottrina tattica nella guerra europea. Conferenze tenute ai corsi ufficiali svoltisi presso la Scuola centrale di fanteria. Roma 1923.
 22. Montagano Francesco. Probabile evoluzione futura del battaglione di fanteria. Conferenze tenute ai corsi ufficiali svoltisi presso la Scuola centrale di fanteria. Roma 1921.
 23. De Pignier Augusto. L'accompagnamento della fanteria nell'attacco. Conferenze tenute ai corsi ufficiali svoltisi presso la Scuola centrale di fanteria. Roma 1921.
 24. Barreca Riccardo. I carri armati e il loro impiego in cooperazione col battaglione di fanteria. Rassegna dell'esercito italiano 1924.
 25. Sacchi Emilio. Idee francesi sui carri armati. La cooperazione delle armi. Gennaio 1924.
 26. Pieri Piero e Rochat Giorgio. Badoglio. Torino 1974.
 27. Caviglia Enrico. Diario aprile 1925-marzo 1945. Roma 1952.
 28. Sweet John J.T. Iron Army. The mechanization of Mussolini's Army. London 1980.
 29. Valori Aldo. La ricostruzione militare. Roma 1930.

Articolo di Emilio Bonaiti pubblicato grazie all'autorizzazione dell'autore