[Nota di apertura: dattiloscritto]

Intervista con Sxx Gxx (Stefano) (Stefano) nel marzo del 1982, emigrato in Cecoslovacchia dal maggio del 1950 alla fine del 1953.

D: Dopo la fine della guerra e della smobilitazione delle formazioni partigiane cosa facesti?
R: Dopo la liberazione feci parte della Polizia Partigiana a Vignola in qualità di vice comandante alle dipendenze del comando alleato di Pavullo, ove rimasi fino alla sua estinzione con la reintegrazione dei carabinieri. Dopo di chè fui designato segretario dell’A.N.P.I. di Vignola, carica che ricopersi fino a quando dovetti rientrare nella clandestinità verso la metà del marzo 1949, quando fu emesso nei miei confronti un mandato di cattura. Le accuse erano generiche, non si specificava se per fatti inerenti alla guerra partigiana o per i fatti del 14 Luglio 1948 a seguito dell’attentato a t. L’operazione si inquadrava indubbiamente nella campagna di persecuzioni scatenata da Scelba.

D: Cosa successe a Vignola il 14 Luglio 1948?
R: Furono effettuati blocchi stradali, allarmi, un po’ successe ovunque.

D: Dopo questi avvenimenti ti sei dato alla latitanza?
R: Si, mi trasferii nei pressi dei Settecani. A mangiare mi recavo presso il falegname “Prospero” e a dormire andavo nelle stalle dei contadini della zona. Dopo una settimana passai dai Ferrari ( Lepre) ex base partigiana, dove rimasi per un’altra settimana, poi fui trasferito a Gavello di Solignano presso Tonino Tagliazucchi e vi restai fin dopo la vendemmia. Dormivo in un sottoscala ex rifugio di guerra e per finestra avevo un mattone. Era già comunque molto meglio della prima settimana quando dormendo nelle stalle, dovevo alzarmi prima dell’arrivo dei boari che iniziavano il governo del bestiame molto presto. Aiutavo la famiglia nel lavoro dei campi, apparendo a volte come un parente e a volte fidanzato di una delle figlie, creando a volte una situazione imbarazzante, malgrado gli sforzi comuni per trarre in inganno i curiosi che erano diventati troppi. Preferii in zona più tranquilla presso una figlia del Tagliazucchi sposata con Bortolomasi in una vicina montagna ove rimasi fino alla primavera del 1950. Restando dei paraggi potei avere contatti con la moglie e vedere il figlio Giancarlo che allora aveva due anni e mezzo. I genitori e i fratelli li potei vedere soltanto dopo il mio rientro in Italia alla fine del 1953. Verso la fine del marzo del 1950, venni portato a Bologna dal compagno Franciosi di Modena, transitammo in macchina da Spilamberto naturalmente senza fermarsi per avere notizie della famiglia. A Bologna fui affidato ad un compagno in tuta, lo seguii il quale mi presentò ad un altro compagno che aveva una motoretta. Mi invitò a salire. Partimmo e raggiungemmo Sesto Imolese superando felicemente due blocchi stradali della polizia e della celere. Si trattava di Tiglini presidente di una cooperativa e mi portò ad Osteriola presso la famiglia Bacchilega e lì restai fino alla mia partenza per la Cecoslovacchia il 2 maggio 1950.

D: Si trattò di un lungo periodo proprio a seguito della rottura con la Iugoslavia di Tito decisa dal Comminform e impose al P.C.I. di creare un altro paese disposto ad accogliere i compagni italiani perseguitati in quanto prima si rifugiavano in Iugoslavia e anche tu pagasti questa insensata rottura. Ma a parte queto chi ti informò che eri cerato, quando lasciasti Vignola?
R: Ma le cose si svolsero così. Rientrato da Modena mentre stavo rincasando a Spilamberto fui raggiunto dal compagno Erio Corni della cooperativa Calzolai il quale mi disse che non era opportuno che rincasassi perché la celere mi stava cercando. Ritornai in stazione ripresi il treno e mi recai a Modena all’ A.N.P.I. provinciale per sapere di cosa si trattava e poi alla federazione del P.c.i. In attesa che si chiarisse la situazione, fui consigliato di nascondermi anche perché a Vignola erano state arrestate diverse persone, naturalmente compagni. Così a Marano e a Castelvetro. Complessivamente erano state arrestate una ventina e di persone. Il pretesto immediato era stato dei buoni di prelievo del periodo partigiano ritenuti falsi. Mentre noi per ogni prelievo effettuato per le esigenze della Resistenza avevamo rilasciato regolari ricevute. Dopo la liberazione, approvata la legge sui danni di guerra, invitai gli interessati a presentare domanda di rimborso per il danno subito. La questura di Modena cercava me come capo espiatorio per i buoni falsi trovati in Provincia, per vedere se erano stati timbrati e firmati da noi della V° zona. Venne il chiarimento e gran parte degli arrestati fu rilasciata. Io invece continuavano a cercarmi, per questo mi diedi alla latitanza. Lepre e Prospero provvidero a trovarmi le case in cui rifugiarmi. Il 2 maggio 1950, sempre il compagno Tiglin mi venne a prendere dai contadini di Battilega presso i quali avevo vissuto a lungo e in autobus raggiungemmo Bologna e mi portò presso una signora di professione sarta abitante in via Lame la quale mi scucì la fodera del vestito e vi introdusse un pezzetto di stoffa con inciso dei numeri che una volta raggiunto Vienna dovevo consegnare per farmi riconoscere. Dopo poco giunse in compagno che non avevo mai visto, probabilmente della federazione, che mi consegnò un passaporto con la mia foto ma con un nome falso, nome dati che dovevo imparare a memoria. Chissà quante volte questo passaporto era stato usato? Poi mi diede delle lire italiane, dei franchi svizzeri e dei scellini austriaci. Mi spiegò l’itinerario che dovevo seguire. Partenza da Bologna ore 16 arrivo alla stazione centrale di Milano deve debbo acquistare un biglietto per Zurigo e sostare in stazione, senza farsi notare fino alle 22,30, orario di partenza del treno via Chiasso. Tutto andò bene anche al controllo di frontiera e arrivai a Zurigo alle 5.30. Arrivato nella grande città svizzera, dovevo pernottare per fare perdere le tracce. Visitai la città fino a mezzogiorno, poi mi venne una fame da boia ma mi rincresceva andare in certi ristoranti visto i prezzi e temevo di rimanere senza soldi. Mi ero incantato a vedere le bellezze di questa città che non avevo mai visto. Finalmente trovai un locale che serviva piatti freddi a pressi accessibili. Entrai e fui servito da un cameriere che parlava l’italiano. In attesa di essere servito entrò una bella signora piena di brillanti con un cane che servirono subito e questa cominciò a dare da mangiare al cane delle paste. Io con la fame che avevo avrei mangiato non solo le paste ma anche il cane. Finito di consumare il pasto pagaie andai in stazione a fare il biglietto pe Vienna dove dovevo recarmi in un albergo del centro di cui disponevo l’indirizzo. Mentre ero in fila arrivò la polizia che prese per le spalle un uomo che si trovava dietro di me e lo buttarono su un furgone. Ebbi paura, dubitai che cercassero me. Invece andò tutto bene. Ripresi il viaggio per la capitale austriaca e passai indenne i controlli dei settori alleati, francese, inglese americano e poi finalmente nei pressi di Vienna il russo e mi sentii tranquillo. In treno avevo incontrato un italiano di Brescia e al nostro arrivo a Vienna voleva a tutti i costi che prendessimo un taxi assieme per spendere meno, ma io non volevo far sapere dove andavo. Persi così tempo per attendere che egli partisse da solo. Arrivai all’appuntamento in ritardo e l’albergo non aveva più camere disponibili. Allora cercai e trovai una camera in un albergo di fianco. Passò un giorno, due, tre, quattro, sei giorni e non si faceva vedere nessuno. Ogni giorno andavo ad attendere e a chiedere nella portineria dell’altro albergo se qualcuno mi era venuto a cercare. I scellini si assottigliavano e fui costretto a mangiare soltanto una volta al giorno per non rimanere in bolletta. Era già molto che riuscissi a pagare l’albergo evitando il pericolo di essere beccati dalle pattuglie alleate che di notte controllavano i viandanti. Attesi 11 giorni e finalmente quando un gruppo di musicisti cecoslovacchi se ne andò e venne libera una camera. Mi era rimasto il denaro per pernottare solo una notte. Alla sera stessa vennero a cercarmi una compagna e un compagno austriaci ex garibaldini di Spagna. Mi fecero salire su un’auto e mi accompagnarono verso il Prater in una villetta dove mi rifocillarono e attesi che venisse il giorno della partenza per la Cecoslovacchia. Mi dissero che mi avevano cercato e non mi avevano trovato e avevano provveduto comunicarlo in Italia. Partimmo un pomeriggio in macchina. Ero accompagnato dal garibaldino e da un ufficiale sovietico vestito in borghese. Mi dissero di non parlare se venivamo fermati avrebbero risposto loro. Passato il ponte sul Danubio un soldato russo faceva lo autostop. Lo caricarono e si mise a sedere dietro alla macchina con me. Questo militare poveretto, parlava, parlava e io non potevo rispondere perché non capivo. A un certo punto l’ufficiale gli disse che io ero un civile muto e che quindi era inutile che egli parlasse. Dopo un centinaio di chilometri il soldato scese noi proseguimmo. Arrivammo alla frontiera che era ancora giorno e ci fermammo in attesa che fosse buio. Ripartimmo e mi dissero mentre imboccavamo una strada di campagna che avrebbero rallentato e che io dovevo saltare giù mentre la macchina continuava la sua marcia. Così feci, riuscii a rimanere in piedi e attraversai di corsa la zona neutra tra le due frontiere. Fui preso letteralmente per il collo da mani amiche delle guardie di frontiera cecoslovacca che erano state preavvisate del mio arrivo. Mi presero la borsetta che avevo con me con poche cose e mi accesero una sigaretta e mi accompagnarono a una vicina casermetta.

D: Ti ricordi la località?
R: No, il villaggio dove c’era la casermetta. Ricordo che la prima città che mi portarono fu Cesco B…….. Giunti alla casermetta, l’ufficiale che mi aveva prelevato fece sgomberare la sala centrale occupata da militari che giocavano, forse per non farmi notare. Poi mi ha invitato nel suo ufficio staccando una chitarra dal muro e mettendosi a suonare e invitandomi a cantare sole mio, mamma e via di seguito. (l’immagine degli italiani all’estero), in attesa che arrivassero dei poliziotti da Cesco Budiovize a prelevarmi in macchina. Aspettammo circa un paio d’ore verso le 23 arrivarono e mi caricarono su una vecchia Scoda di grossa cilindrata e a grande velocità mi portarono a Cesco Budiovize. C’erano frequenti posti di blocco che superammo agevolmente appena conosciuto chi eravamo. Mi portarono in una stanza piena di letti con pagliericci. Mi portarono una coperta e lì dormii. Alla mattina venne un poliziotto e mi fece capire che voleva sapere se avevo fame e mi accompagnò in cucina e mi offrirono il caffe e un sacco di altre cose. Mi accolsero molto bene e c’era una vecchia signora, forse una cuoca che conosceva l’Italia meglio di me e parlava molto bene la nostra lingua. Dovevo partire per Praga il giorno stesso e poi giunse un contrordine e la partenza fu rinviata al giorno dopo. Mi proposero di andare a visitare la città cosa che volentieri feci. La mia prima impressione fu penosa vedendo quelle vetrine vuote, piene di fotografie di Lenin, Stalin, di Gotvald con quattro dita di polvere e suscitò in una certa delusione. Entrando poi nel parco , incominciai a vedere dei vecchi , delle persone anziane con la carrozzella ben vestiti. E la prima impressione migliorò. Vedevo anche aspetti positivi. Il giorno dopo mi accompagnarono a Praga all’hotel Paris dove un compagno italiano Nadaluti di Cormoa, friulano che per conto di Democrazia Popolare riceveva i compagni in arrivo .

D: Te lo ricordi questo meraviglioso compagno che aveva iniziato a fare il partigiano da ragazzo con gli iugoslavi fin dal 1941? E’ morto vero?
R: Si me lo ricordo benissimo. Anzi quando è morto io ero in Cecoslovacchia a Bernò e andai a visitare la sua salma all’ospedale dove era deceduto. Mangiammo assieme all’Hotel Paris e poi mi accompagnò a Visociani in un collegio per i giovani operai della Scoda che studiavano ed era il luogo di smistamento per tutti gli italiani che emigravano in Cecoslovacchia per fatti politici.

D: Cosa era Visociani?
R: Era un convitto scuola sindacale, aveva una cucina centrale e sale con letti e servizi per dormire. A noi era stata assegnata un’ala dell’edificio. Potevano fare da mangiare anche alla nostra maniera perché i piatti cecoslovacchi, particolarmente all’inizio non erano gradevoli. Il convitto era situato in un quartiere periferico ad est della città.

D: Ti venne a prendere Nadaluti, ma chi c’era a dirigere Visociani?
R: A dirigere il collettivo c’era un certo Manzoni ex sindacalista ferrarese e a dirigere tutta l’emigrazione italiana a democrazia popolare c’era Dotti, poi venne Ciuffoli e poi Moranino. Ricordo che a Praga rimasi oltre tre mesi perché bisognoso di una delicata operazione e fui ricoverato all’ospedale del partito e dopo la degenza fui destinato al collettivo di Oleczovize, azienda statale agricola ove già lavoravano una trentina di compagni italiani. Era situato in Moravia nella provincia di Znojmo, regione di Brnò. Ho lavorato in campagna per circa cinque mesi.

D: Ti ricordi come era formato il gruppo dirigente del collettivo agricolo?
R: Per i lavori nei campi era uno di Monteveglio un certo Reggiani, mentre responsabile politico c’era Massa che non ricordo quale provincia fosse.

D: Non ti ricordi di Eros di Reggio Emilia?
R: Quello era a Ploscovize in un altro collettivo. So comunque che alcuni di questi dirigenti non facevano la parte del loro dovere come comunisti, specialmente il Massa. Per il suo comportamento lo facemmo destituire e fu mandato a lavorare in una acciaieria, ai forni, poi dopo un periodo di altalena e quando c’era già Moranino fu espulso dalla Cecoslovacchia e appena giunto a Vienna, pochi giorni dopo, la sua voce si sentiva dai microfoni di una radio americana “Europa Libera” contro tutta la nostra emigrazione e la politica del P.c.i..

D: Mentre eri nel collettivo agricolo ti ricordi che sia venuto a farvi visita Sezeiga?
R: No, al collettivo di Oleczovize venne la Rolenova, membro del C.C. del partito comunista cecoslovacco ed era responsabile per i rapporti con la nostra emigrazione. (Che è morta poverina. Era venuta anche a Carpi in un incontro con gli ex emigrati). Poi fui inviato a frequentare il secondo corso politico che era stato organizzato nei pressi di Praga in una villa a Dopsicovize.

D: Lì poi c'era da svolgere al sabato e alla domenica le brigate di lavoro nei cantieri per contribuire alla costruzione del socialismo? Cioè oltre che a studiare c’era da lavorare?
R: Sì, alla domenica c0era da andare a fare le brigate in un vicino cementificio in costruzione situato sopre al castello di Carlestein. Abbiamo fatto le brigate per la costruzione della piazza Letna a Praga, dove nei pressi fu eretto il gigantesco monumento a Stalin. Lì abbiamo lavorato parecchio, tirando carretti a mano di pietrisco.

D: Ti ricordi che io non ero convinto sull’utilità di andare a lavorare per costruire un monumento? Non so il perché ma non mi andava di fare questo lavoro. Pensavo che la riconoscenza verso Stalin dovesse avvenire o esprimersi in altro modo ad esempio scuole, case per i lavoratori, opere più utili.
R: Sei venuto anche tu, oltre che al cementificio.

D: Comunque arrivati alla scuola, ti ricordi gli insegnanti?
R: Il direttore era Foschi (Di Giovanni)

D: Ecco che giudizio dai su Di Giovanni?
R: Per me era un uomo abbastanza severo, molto fondato politicamente che aveva istruito anche alti quadri del nostro partito. Verso di noi dava una impostazione politica molto rigorosa e d’altra aveva delle lacune nella sua formazione e non tollerava certe manifestazioni sessuali che erano necessarie a gente giovane come eravamo noi. Respingeva la possibilità che noi avvicinassimo delle donne cecoslovacche e così via. Esaltava l’astinenza come fattore formativo. Egli citava l’esempio degli emigrati antifascisti italiani in Russia e ripeteva spesso “quando noi arrivammo nell’Unione ci mandarono a costituire dei colcos e noi cercavamo di lavorare il più possibile per non pensare agli svaghi con le donne”! Questo per noi era inaccettabile. Protestavamo per i pochi permessi di libera uscita che rilasciava per raggiungere Praga. I primi tempi ogni mese, venti giorni, poi ogni settimana. Poi la teoria dei denti artificiali. Diceva: “fate come me, levatevi tutti i denti e avrete una bocca, e lo stomaco sano. Mangiare carote grattugiandole come lui faceva. Anche se bisogna riconoscere che al di là di queste stranezze era un uomo paziente, comprensivo e sempre disponibile ad aiutare ad apprendere i meno preparati.

D: E Villa, il commissario politico biellese?
R: Per me era un grande parlatore. Per me anche un po’ sorpassato. Esagerava talmente i fatti, le cose, da arrivare a deformarli. Divenivano incredibili. Come quando si metteva a parlare di Miciurin che aveva innestato dei meloni sulle piante di frutta e tutti gli anni si raccoglievano meloni. Diceva cose incredibili fandonie. (aggiungo io e la Vacca Stalin).

D: E Gambetti l’ex comandante della 7° gap di Bologna?
R: Elemento con un comportamento particolare. Egli voleva sempre essere al di sopra di tutti e voleva che noi magari fossimo suoi servi, i suoi garzoni. Tanto basta che un giorno voleva che andassi a vuotare il pozzo nero e gli riposi: “tu prendi una parte del manico del secchio e io prendo l’altra perché la merda è tanto tua quanto mia”. Mi rispose: tu porterai per tutta la vita un segno che non potrai mai essere comunista”. Invece io sono ancora oggi un comunista, mentre da anni Gambetti non lo è più.

D: E Scetlik, il compagno cecoslovacco che ci seguiva?
R: Non mi ricordo bene. C’era quello grosso come si chiamava? Non mi ricordo….

D: E chi insegnava l’italiano, ti ricordi? L’insegnante di Bologna?
R: No, non ricordo.

D: Malgrado tutto io personalmente ritengo positivo il ruolo svolto dalla scuola per acculturare tanti compagni, a dargli una base linguistica, a fornirgli gli elementi della storia moderna del nostro paese. Anche se l’impostazione dell’insegnamento del -leninismo era dogmatica, quasi una nuova religione. Ti ricordi Villa come considerava Stalin il più grande scienziato vivente, politico, teorico, storico, linguistico e naturalista! Poi che il partito non sbaglia mai! Poi il considerare i compagni un po’ tutti come dei minorati bisognosi di essere rieducati?
R: Sì, sì.

D: Alcuni elementi di colore. So che tu interpretavi nel complesso teatrale perché bisogna dire che si faceva anche teatro nel quadro dell’attività ricreativa. Facevi se ricordo bene la parte di un vecchio contadino con il bastone?
R: Sì, per allietare le lunghe serate facevamo un po’ di teatro popolare che inventavamo criticando anche gli insegnanti ad esempio Foschi. Oppure prendevamo in giro Gambetti quale pescatore. Così distraevamo un po’ il collettivo. E vincevamo la nostra solitudine.

D: I tuoi tentativi di cucinare le cornacchie come andarono a finire?
R: Ma fu un esperimento pietoso. Dopo averle bollite per ore, assaggiai la carne, sapevano di formiche.

D: Ti ricordi a scuola, nel tuo corso, c’era anche Pollacci (Iris Malagoli) Mario il Modenese.
R: No. Pollacci venne al collettivo agricolo dove io lavoravo finito il primo corso a cui avevo partecipato. Mi ricordo che sapendo che me ne sarei andato a frequentare il secondo corso, mi chiese di dargli un piumino che io avevo fatto con materiale di palude e sul quale si dormiva molto bene. Il rientro in Italia invece lo facemmo assieme ad altri 28 compagni.

D: E Menabue Renzo della Buca?
R: Era con me al collettivo agricolo di Oleczovize. Assieme abbiamo partecipato al secondo corso e poi fummo trasferiti a Comutov al tubificio ex Manesman. Vi ho lavorato per circa otto mesi e ho conosciuto diversi compagni tra i primi arrivati in Cecoslovacchia come il Rinaldi veneto, un’intellettuale che studiò con noi alla scuola e che prometteva molto. Egli ha sempre lavorato e tuttora lavora e vive in Cecoslovacchia e non ha mai chiesto più del necessario come altri facevano.

D: Fu nel 1951 che a Comutov fu festeggiato il Primo Maggio da parte degli emigrati italiani (politici e comuni) e per l’occasione fu scoperto un busto a Gramsci e lo studente triestino Butoras pronunciò un discorso a nome di Democrazia Popolare?
R: A Comutov costruimmo un monumento a Gramsci e organizzammo una grande manifestazione con il concorso della popolazione cecoslovacca e la partecipazione degli emigrati comuni i quali lavoravano il Cecoslovacchia fin dal 1947 a seguito di un accordo tra Di Vittorio e Zapotozchi dirigenti dei sindacati cecoslovacchi. La popolazione civile ci vedeva molto bene noi italiani perché sapevano inserirsi nel loro modo di vita. Ci trovavamo in una zona di confine con la Germania occidentale, negli ex Sudeti dove la popolazione di lingua tedesca era stata mandata via. Ricordo che avevamo costituito un circolo, una specie di club con una scaletta per ballare e un bar e i cechi partecipavano numerosi alle nostre feste e si famigliarizzavano con noi.

D: Ti ricordi l’oratore che parlò durante la manifestazione del Primo Maggio, c’era anch’io questo è certo?
R: Sì era Butoraz.

D: Dopo Comutov dove sei stato?
R: Dopo Comutov fui chiamato a Praga e poi inviato a Ploscovize in un altro collettivo agricolo.

D: Eri a Praga quando arrivò Moranino?
R: Moranino arrivò nel primo periodo che ero a Praga e ricordo che l’andammo a prendere all’aeroporto. Credo alla fine del 1950. Arrivò a democrazia popolare una telefonata di Moranino dall’aeroporto. Chiedeva di andarlo a prendere perché la polizia non lo lasciava uscire. Io gli risposi “ma chi sei? Io non ti conosco come Moranino. Insomma avvisa qualcheduno e venitemi a prendere”. In quel momento arrivò Manzoni responsabile del collettivo di Visociani. Non sai chi è Moranino? Ma è Gemisto famoso comandante partigiano delle montagne piemontesi. Chiamammo un taxi e ci recammo all’aeroporto e la polizia vedendo i nostri documenti si convinse a lasciare uscire Moranino. Le difficoltà sorsero in seguito al fatto che lui aveva un visto sovietico e doveva proseguire per Mosca e non fermarsi a Praga.

D: Torniamo alla scuola. Ti ricordi quando venne Secchia?
R: Sì mi ricordo quando venne e ci fece una conferenza molto attesa perché noi non vedevamo l’ora che venisse qualche dirigente nazionale ad informarci della situazione italiana. Ci rianimò, e ci risollevò il nostro morale anche perché non sapevamo come potevamo ritornare.

D: Rimase lì con noi (io partecipai al secondo corso come assistente oggi diremmo animatore dei corsisti) anche il pomeriggio seguendo con grande interesse alla lezione di Moranino sulla tattica partigiana per sfuggire ad un accerchiamento nemico fatto su un tavolo dove era stata ricostruita una montagna con della sabbia.
R: Sì.

D: Oltre a Secchia ti ricordi che sia venuto Longo?
R: Non mi ricordo. Mi ricordo di altri dirigenti italiani come Moscatelli, Paietta e di dirigenti cecoslovacchi come Gheminder che tenne una lezione. (guarda che ciò avvenne al primo corso, al secondo era già stato arrestato con Slanzchi?) No venne anche al secondo. Mi ricordo che Moranino gli rispose “non fateci fare la stessa fine dei compagni italiani di ritorno dalla Spagna in Francia dove furono rinchiusi in un campo di concentramento”. Venne il ministro delle finanze Clementis che abitava in una villa poco distante dalla nostra scuola e altri dirigenti cechi.

D: Ritorniamo a Plescovize dove eri stato inviato dopo Comutov.
R: Fui incaricato di fare la guardia a Plescovize dove i più idonei del primo e del secondo corso proseguivano gli studi da cui usciranno tanti compagni come il Borghi Francesco, il Bencivenga di S. Damaso che il partito inviò chi in Polonia, chi a Mosca, chi in Romania. Il nome di Plescovize era il nome del villaggio e l’azienda agricola era statale un’ex azienda che era appartenuta al primo presidente della Repubblica Masarik. La villa dove noi studiavamo faceva parte dell’azienda ed è tuttora museo nazionale per le sue sculture e i suoi affreschi e dipinti. Ricordo di essere stato a visitare questo museo pochi anni orsono. Ho visitato anche l’ala destra del palazzo restaurato da un nostro compagno architetto.

D: E lì fino a quando sei rimasto?
R: Sono rimasto un paio di mesi e poi con il terzo corso, fummo chiamati a sostituire la polizia ceca di guardia alla villa, io e il compagno Arturo Benedetti (Venturi) il Brot di Vignola e Alessio Lamprati di Milano. (Nino Volprati).

D: Prima di concludere questa vicenda e prima che tu racconti come avvenne il tuo ritorno in Italia vorrei chiederti se oltre a Iris Malagoli “Mario il Modenese” (Pollacci in Cecoslovacchia)di cui hai parlato, ti ricordi di altri compagni di Spilamberto e della zona emigrati in Cecoslovacchia? Ad esempio Oscar Franceschi (Baldi), nipote di Iris, valoroso gappista che ebbe l’onore di giustiziare ancora con i pantaloni corti l’odiato collaborazionista dei tedeschi il maresciallo dei carabinieri Tinarelli? Oppure Mario Malferrari (Magni) morto anche lui prematuramente. Un compagno difficile ma intelligente. Così i compagi di S. Damaso ad esempio (Bencivenga) Alberto Varini o di Carpi?
R: Sì, ricordo molto bene Iris e Malferrari di Spilamberto e Franceschi del Ponte Guerro a cui ero legato da comunanza di idee e di vita in Cecoslovacchia, purtroppo tutti deceduti troppo presto. Ricordo molto bene anche i compagni di S. Damaso (Scotti) Wainer Piero Pavignani (Ghiacci ) Franco Bertoni e il biondo Mario Loschi Francesco Zagni di Modena (Bencivenga) Alberto Varini di S. Damaso, Guerrino Medici (Giulio Bertelli di Carpi, Giuseppe Marchi di Castelnuovo Rangone giunto in Cecoslovacchia dalla Iugoslavia dopo un avventuroso viaggio attraverso la Romania. Con Malferrari lavorammo assieme per otto mesi a Chomutov. Si era un po’ appartato dal collettivo in quanto si era accompagnato con una donna cecoslovacca. Ci vedevamo soltanto al lavoro o in occasione di riunioni al nostro circolo in via Togliatti.

D: E Oscar?
R: Lo trovai alla scuola di Dobsikovize quando io frequentai il secondo corso. Con lui però non ho mai vissuto nello stesso collettivo di lavoro perché fummo smistati in luoghi diversi. Ogni tanto ci incontravamo a Praga o a Visociani dove i compagni potevano sostare quando si recavano nella capitale o per lavoro o per divertirsi, per passare qualche ora di svago.

D: A proposito della scuola di Dobsikovize ti ricordi dei preparativi che furono effettuati per il preannuncato arrivo di Togliatti?
R: Ricordo che avevamo fatto diversi preparativi per accogliere il capo del P.c.i. che poi non potè venire per impegni a Praga. Ricordo anche quando organizzammo la festa dell’Unità all’interno della scuola nel parco prospicente. Così rammento tanti altri compagni italiani di passaggio da Praga che ci venivano a trovare e a tenere conferenze sulla situazione italiana come Secchia.

D: Ora vorrei chiederti una cosa un po’ legata a prima e a dopo il tuo soggiorno in Cecoslovacchia, ma a me sembra abbia un fondamento. Quale fu la motivazione ideale che ti portò a militare nel P.c.i. durante la lotta partigiana nel 1944? Furono soltanto ragioni militari?
R: Non si trattava soltanto di ragioni militari, del movimento partigiano che vedeva il P.c.i. alla testa della lotta armata senza guardare anche al fine politico del movimento. Questa maturazione politica che mi portò ad avvicinarmi al P.c.i. e al suo programma politico risaliva fin da giovane quando ero ancora servo contadino presso i Bazzani del Ponte Re. Ascoltando i racconti dei vecchi socialisti sulle lotte condotte contro i padroni prima del fascismo e poi le persecuzioni e le violenze subite dalla dittatura, violenze e barbarie che anche noi subimmo durante il servizio militare e dopo l’8 settembre. Da qui la scelta quasi naturale di aderire al P.c.i.

D: Va bene questo tema lo riprenderemo quando tornerai in Italia. Nel novembre del 52, finito il tuo lavoro alla scuola di stato chiamato a Praga a collaborare con Democrazia Popolare invia Opletalovax e nel marzo del 53 fosti nuovamente ricoverato nell’ospedale di Karlov per un secondo intervento chirurgico? Dopo una convalescenza di tre mesi, ristabilitoti, nel giugno del 53 fosti inviato al collettivo di Brnò in Moavia?
R: Giunto a Brnò fui inviato a lavorare nella fabbrica di trattori Zetor a Lisen. Superati bene gli esami clinici a cui fui sottoposto, scelsi un lavoro che mi si confaceva e mi permetteva di ricevere un certo salario. Incontrai altri compagni italiani che lavoravano nella fabbrica e mi trovai bene e stabilii rapporti molto amichevoli anche con i lavoratori cecoslovacchi. Lavorai pochi mesi poiché ai primi di settembre assieme ad altri compagni fui richiamato a Praga dove vi fu comunicato il nostro entro in Italia.

D: Prima di descrivere rapidamente come si svolse il rientro, vorrei da te un giudizio spassionato sulla gente cecoslovacca e anche sul partito comunista cecoslovacco sul suo comportamento nei nostri confronti. Ecco a distanza di tanti anni che giudizio dai di quel Paese e di quel popolo? Provi un sentimento di riconoscenza?
R: Io per tutto il periodo che ho vissuto in Cecoslovacchia nei rapporti di lavoro che stabilii con gli operai e i dirigenti del partito ho potuto toccare con mano sempre sensibilità e comprensione per i nostri problemi e i nostri bisogni. Rapporti comunque sempre buoni. Considero tuttora quel popolo molto colto, educato e anche abbastanza laborioso.

D: Al di là delle vicende dei rapporti tra i due partititi e dei contrasti seguiti all’intervento sovietico nel 1968, come uomo, come italiano, come operaio che ha lavorato gomito a gomito con gli operai cecoslovacchi ad esempio alla Zetor dove lavoravi ai forni per produrre sfere, che giudizio dai dell’uomo, della gente cecoslovacca?
R: Do un giudizio positivo delle qualità degli operai e del popolo cecoslovacco. Certamente se dovessimo considerare i nostri ritmi di lavoro con i loro è un po’ diversa. Le caratteristiche e le tradizioni dei due popoli sono profondamente diverse. Ad esempio un certo menefreghismo dovuto al sistema sociale che non cointeressa sufficientemente gli operai al lavoro, non modifica il mio giudizio sostanzialmente positivo su quel popolo, giudizio che confermo anche a seguito di recenti visite effettuate in Cecoslovacchia con contatti con i compagni che ancora vivono in quel Paese.

D: Altra domanda di fondo. Tu sei tornato nel 1953, esattamente alla fine dell’anno. Ti sei inserito nella vita andando a lavorare alla Cooperativa Edile. Seguirono rapidamente avvenimenti di grande importanza nella vita del P.c.i. : morte di Stalin, conferenza d’organizzazione nazionale del P.c.i. con l’allontanamento di Secchia alla direzione della Commissione Nazionale d’Organizzazione sostituito da Amendola, avvenimento che apre un processo di rinnovamento nel partito e infine il xx congresso del P.c.u.s. con la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Krusciov nel famoso rapporto “segreto”. Come hai vissuto quegli avvenimenti? Ti dico la verità, dato il tuo passato, dirigente dei G.A.P. della zona, emigrato in Cecoslovacchia ecc. avrei pensato che anche dopo il 1956, tu fosti inserito nella vita politica del partito locale a livello dirigente. Invece nel 59 quando tornai ti trovai, non disimpegnato, ma comunque un po’ ai margini della vita del partito e anche non poco critico della sua politica di rinnovamento e polemico attorno ai problemi aperti dal xx congresso. Perché? Ti deluse?
R: Dopo il rientro in Italia non ho pensato di inserirmi nella vita politica, di continuare ad assumere posti di responsabilità alla testa del partito o di altre organizzazioni. Bensì ho dato il mio contributo di militante alla sezione del P.c.i. fino al 67/68 e via di seguito. Debbo però confessarti che quando si svolse il xx congresso per me fu una doccia fredda. Perché nella mentalità di un uomo che ha combattuto, che ha fatto non pochi sacrifici, si è formato una coscienza politica, un’ideale, non è facile in un solo colpo dimenticare tutto questo passato.

D: Tu eri a Spilamberto quando morì Stalin?
R: No ero ancora in Cecoslovacchia e mi sembra che stessi per andare al collettivo di Dobsikovize. Appresi la notizia alla stazione mentre stavo prendendo il treno. Al collettivo fu allestita una camera ardente con un quadro di Stalin e i compagni a turno rendevano omaggio in silenzio alla figura dello scomparso. La popolazione cecoslovacca apparve molto colpita e so vedeva gente con le lacrime agli occhi, così come quando dopo poco morì il loro presidente Godwald. Ci fu una commozione simile che esprimeva dolore. (La moglie Lea, aggiunge che anche a Spilamberto fu allestito i piazza una specie di altarino con la foto di Stalin con tavolo ove su un libro aperto la gente faceva la fila per apporre la propria firma.)

D: La critica dissacrante di Krusciov a Stalin ti colpì profondamente?
R: Sì, mi colpì in quanto lo stesso uomo Krusciov per anni aveva scritto e parlato tanto esaltando Stalin come se fosse la luce del sole necessaria per la via, per alimentare la terra perché i raccolti potessero crescere rigogliosi e al xx congresso lo trasformava in un criminale con una spietata critica e denuncia dei suoi delitti compiuti in nome de socialismo, rimangiandosi tutto quanto detto prima. Io che avevo letto quello scritto da Krusciov e da tanti altri dirigenti comunisti su Stalin ora sentire dire dagli stessi uomini cose completamente diverse non fui d’accordo e ritenni e ritengo tuttora che non di possa imputare la responsabilità di tali degenerazioni a un solo uomo mentre la responsabilità ricade anche sugli altri dirigenti membri del Politburo compreso Krusciov. Se Krusciov era a conoscenza e non poteva non esserne a conoscenza, di tutte le malefatte di Stalin, molto tempo prima, aveva il dovere di denunciarlo, doveva avere il coraggio di condannarlo prima. Diversamente sembra che non l’abbia fatto per salvare la propria pelle.

D: Veniamo all’Italia. Più volte ti hi sentito dire, per spiegare le tue riserve sulla politica del P.c.i. dopo l’VIII° congresso svoltosi nel 1956 dopo il XX Congresso, di non considerare più credibili dirigenti come Togliatti, Paietta ecc che per anni ti hanno detto certe cose poi improvvisamente ne hanno dette altre? E’ vero?
R: Sì, anche se non ritengo tutto negativo la politica del P.c.i. particolarmente quella svolta sotto la direzione di Togliatti, anzi ritengo che abbia avuto molto aspetti positivi. Certamente le cose al mondo cambiano, cambia la politica, cambiamo le posizioni degli uomini. Noi però, non avendo una cultura, al massimo avevamo frequentato le scuole elementari, non potevamo renderci conto della giustezza di tutti questi mutamenti ed è per questo che spesse volte ci siamo trovati e ci troviamo in contrasto con la linea politica portata avanti dai nostri dirigenti di partito. Ad esempio specialmente in questi ultimi tempi. Io non mi trovo d’accordo con la cosiddetta “terza via”, perché non vedo come questi mutamenti possano avvenire in un periodo di pochi mesi l’uno dall’altro. Penso sia meglio meditare di più prima di prendere determinate decisioni su due piedi.

D: Il quadro di Stalin l’hai conservato?
R: Il quadro di Stalin l’ho conservato e lo conservo ancora Penso che ogni persona, ogni dirigente politico abbia i suoi pregi e i suoi difetti. Perciò non possiamo condannare completamente quello che è stato il problema, l’epoca di Stalin. Per me in quell’epoca non c’era altro spazio per fare altrimenti. Ti ringrazio e allego in appendice le tue considerazioni finali per iscritto. In tutti i miei spostamenti durante il periodo di emigrazione in Cecoslovacchia ho avuto modo di conoscere quasi tutti i compagni italiani emigrati politici e comuni. Mi permetto pertanto di esprimere alcuni giudizi su persone, particolarmente dirigenti.

Collettivo di Plescovize.                                                                                                              

Era diretto da Didino Ferrari (Didino Dosati) nome di battaglia in Italia Eros, ex dirigente partigiano a Reggio Emilia. Era riuscito a formarsi un cerchio di compagni attorno a lui che gli davano sempre ragione e che proteggeva. Nel contempo ne distruggeva altri, additandoli nel suo libro nero come dei contestatori riformisti, isolandoli dal resto dei compagni. Io per fortuna rimasi al collettivo poco più di due mesi perché inviato alla scuola di Partito a Dobsikovize.

Morarino Francesco (Moretti) Nome di battaglia in Italia Genisto. Leggendario comandante partigiano piemontese, bravo dirigente e trascinatore nei primi anni quando il suo comportamento attirava simpatia. Poi anch’egli per errori e manchevolezze morali lo portarono a perdere gradualmente prestigio                            e influenza sui compagni anche a seguito del suo carattere un po’ duro e dal modo centralistico con cui dirigeva l’emigrazione. Negli ultimi tempi quale dirigente della emigrazione era discusso e contestato.

Foschi: Direttore della scuola di partito di Dobsikovize. Uomo di grande cultura, tempra di vecchio bolscevico, un po’ di carattere burbero, asociale. Godeva però della massima stima da parte di tutti noi che abbiamo frequentato i corsi politici sotto la sua direzione. Vero moralista, non tollerava che gli allievi avessero rapporti con donne durante i corsi politici. Severo con i pasti e la gastronomia in generale, nemico giurato della pasta asciutta.

Bertone Silvio (Villa) Insegnante di economia politica alla scuola. Altro anziano antifascista di Novara dove era stato commissario di una grande unità partigiana piemontese ed ex combattente di Spagna. Dotato di media cultura, esaltatore ideale dei fatti, cose e personaggi, fino a non rendere credibile quanto diceva e illustrava a noi del corso. Ad esempio sulle realizzazioni dell’agronomo Miciurin ottenute nel suo giardino botanico in Unione Sovietica: innesto di fagioli su acacie a seguito dei quali ogni anno si poteva raccogliere i fagioli sull’acacia. Oppure i meloni innestati su altre piante. Raccontava in sostanza delle balle e diceva cose non fondate né sul piano scientifico, né sul piano dell’obiettività. Si lasciava trascinare dell’esaltazione incontrollata dell’U.R.S.S. fino a non farsi credere.

Renato Mistroni (Manzoni) responsabile del collettivo di Viso Ciani, compagno sindacalista di Ferrara, modesto ma coerente nel sapere collegarsi, stabilire rapporti con i compagni appena giunti dall’Italia.

(Enzo Nadaluri) Cont Giovanni Battista compagno friulano di Gorizia, intelligente con notevoli capacità politiche ed influente sui compagni per il modo efficace con cui sapeva illustrare le lotte storiche e politiche del movimento operaio italiano e internazionale ai compagni.

(Papa) Ubaldo Papa piemontese di Novara, tra i primi arrivati in Cecoslovacchia. Elemento equivoco, nei nostri confronti non faceva presa la sua figura politica.

(Favaro) Ferdinando Zampieri di Novara. Dirigente del P.c.i. clandestino nelle zone di Novara e Biella. Persona con carattere particolare, cercava nel suo lavoro di direzione a Democrazia Popolare di mantenere un distacco, dall’alto in basso con i compagni. Non riuscì a conquistare fiducia tra gli emigrati politici e finì la sua carriera politica a livelli bassi.

Ciufoli che per un periodo, dopo dotto, diresse l’emigrazione politica in Cecoslovacchia. Compagno profondamente temprato nelle lotte antifasciste, dotato di capacità umane. Sapeva mantenere buoni rapporti con i compagni, senza superbia, con modestia e diede un importante contributo a costruire l’organizzazione di Democrazia Popolare.

(Dotti Roberto) Roberto Dotti. Professore di Torino che insegnava storia d’Italia moderna all’università di Praga e che diresse prima dell’arrivo di Moranino l’emigrazione italiana. Ambizioso, ci teneva a mantenere le distanze con i compagni, a fare pesare le sue origini intellettuali, la sua superiorità verso i compagni. Bisogna però riconoscere che contemporaneamente sapeva dirigere e influenzare le autorità cecoslovacche che curavano la nostra emigrazione. Noi della base che vivevamo nei collettivi non andava bene il suo modo di dirigere, non veniva digerito. A noi andava bene un altro tipo di dirigente: capace, modesto, in grado di fraternizzare con noi, di vivere assieme a noi, senza boria o ostentazione di superiorità. (politicamente ha fatto una brutta fine. E’ andato a finire nelle file dell’organizzazione anticomunista “Pace e Libertà” di Sogno).

(Gambetti) Vittorio Combi, ex comandante della Settima G.A.P. di Bologna. Elemento equivoco, gran parlatore, cercava sempre di inculcare agli altri il suo punto di vista, giusto o no che fosse. Il modo in cui si esprimeva, dava l’impressione di essere un grande pensatore ma nella pratica era vuoto e si preoccupava soprattutto di restare a galla, magari sfottendo gli altri. Era sostanzialmente un piccolo borghese nel senso più deteriore. Ghiottone in fatto di mangiare, pretendeva i cibi migliori per lui e la sua famiglia (aveva con sé la moglie Antonietta De Zio, una delle poche eccezioni perché la direzione del P.c.i. si è sempre opposta alle pressanti richieste dei compagni di farli raggiungere dalle proprie mogli e figli). Mangiava appartato con la propria famiglia, anziché alla mensa come tutti noi, dato che vivevamo nello stesso collettivo. Svolgeva il ruolo di insegnante di varie materie, ma non riuscì mai a conquistare simpatia tra i compagni. Al suo ritorno in Italia ebbe una triste sorte, come tanti altri dirigenti ed è finito fuori dal Partito.

(Setti) Giuseppe Setti ex partigiano della bassa reggiana. L’ho conosciuto brevemente, ma per sentito dire dai compagni, era un dirigente di secondo piano e il suo comportamento in certi casi, ad esempio verso compagni come Campana, sempre di Reggio fu indegno fino a giungere a vie di fatto. Fu isolato da tutti, così altri compagni minori che seguirono questo stupido metodo. Molti pregi, molta simpatia e riconoscimento devono andare a moltissimi compagni semplici, bravi lavoratori come (Rinaldi) Angelo Cacioppo di Treviso, intellettuale, proveniente da famiglia borghese, sofferse come noi tutti le privazioni e la durezza dei lavori manuali, ma mai ha rinunciato agli ideali comunisti, o ha dato segni di sbandamento di fronte alle difficoltà, mai si è messo contro i compagni, o contro il Partito. Per me questo compagno è stato un esempio, un simbolo dei più positivi dell’emigrazione politica in Cecoslovacchia.

Noi di Spilamberto e zona eravamo in otto compagni: (Polacci) Iris Malagoli, (Baldi) Oscar Franceschi del Ponte Guerro, (Scarlatti) Renzo Menabue della Buca, (Venturi) Arturo Benedetti di Vignola, (Magni)Mario Malferrari, (Biagi Michele) Francesco Borghi, (Scalambra) Giovanni Sola, (Scotti Wainer) Piero Pavignani di S. Damaso, (Giuseppe Marchi) Giuseppe Marchi di Castelnuovo Rangone, (Walter Bencivenga) Albero Varini di s. Damaso.

Il mio rientro avvenne nel settembre del 1953 assieme a Iris ed altri ventisei compagni di varie province italiane. Partimmo in aereo da Praga e atterrammo in un aeroporto bombardati a Vienna e abbandonato. Pendo fosse situato in zona russa. Un autobus ci attendeva, saliti partì verso la città. A un certo punto l’autista fermò l’automezzo e cambiò il cartello che aveva sulla cabina. Entrati a Vienna l’autobus salì su un marciapiede con le ruote e si fermò di fianco ad una porta di un edificio. In tal modo non restava spazio per i pedoni. Scendemmo, infilammo la porta e salimmo una scala che portava ai piani superiori dove era stato approntato il pranzo per noi. Poi andammo a dormire perché ci fu detto che alla notte ci sarebbe venuto a prendere un altro autobus per portarci alla frontiera italiana. Così avvenne e verso le dieci della mattina successiva ci scaricarono vicino al confine italiano. A gruppi di quatto o cinque proseguimmo a piedi con guide austriache verso il versante italiano delle Alpi. Lassù c’era un compagno in piedi sotto un grosso pino che consegnò 10.000 ad ognuno di noi. Scendemmo in territorio italiano senza nessun documento e alla stazione ferroviaria più vicina sulla linea di Tarvisio. Io e Iris raggiungemmo in treno Bologna e poi in taxi Spilamberto dove giungemmo alle quattro del mattino del giorno successivo.

Gli altri presero destinazioni diverse per raggiungere anche loro le proprie famiglie. Restammo nell’anonimato per qualche settimana. Poi, pin piano, ci facemmo vedere in circolazione. Nessuno del Partito si fece vedere e cercò di incontrarmi. Fui io a mandare mia moglie Lea a chiamare il segretario del P.c.i. perché volevo parlargli. Era un certo Muratori di S.Vito, un compagno timido, riservato. Non mi fece una grande accoglienza. Forse la sua giovane età, la sua poca esperienza politica non gli permettevano di esprimere una grande capacità necessaria a dirigere una sezione comunale come quella di Spilamberto. Non andai a disturbare nessuno per ottenere un posto di lavoro presso enti pubblici, comune o provincia, mi arrangiai da solo e preferii andare a fare il manovale alla cooperativa muratori. Dopo circa un mese venni invitato in caserma dei carabinieri dal maresciallo. C’era presente un funzionario di polizia e procedettero al mio interrogatorio. Volevano sapere dove ero stato dal 49 al 53. A seguito della mia affermazione secondo cui avevo sempre vissuto a Spilamberto, il maresciallo reagì violentemente picchiando i pugni sulla scrivania. Disse: “non mi prendere in giro, sono venuto molte volte a cercarti a casa tua, ma non ti ho mai trovato!” “Maresciallo” gli risposi, “se Lei fosse venuto quando era a casa mi avrebbe trovato”. Così finì l’interrogatorio. Li salutai e non fui più molestato da nessuno. Non potevo parlare liberamente in pubblico e dire dove ero stato, perché potevo essere arrestato per espatrio clandestino. Così trascorsero gli anni 60 e il famoso periodo Tambroni con i suoi tentativi autoritari in combutta con i fascisti spazzati via dal grande sussulto popolare antifascista. Il desiderio di incontrare i compagni era grande e così io, Mario Malferrari, Frando Crociani (Walter Masetti) di Modena e Arturo Benedetti Al Brot di Vignola organizzammo un pranzo alle Tavernelle nei pressi di Vignola. Ci trovammo in una trentina. Da questo incontro saltarono fuori altri nomi, altri indirizzi di compagni che era difficile rintracciare perché in Cecoslovacchia portavano nomi diversi da quelli veri in Italia. Il secondo raduno lo organizzammo presso l’albergo La Fontanella sulla via Emilia tra Modena e Bologna.

Fu un successo, vi parteciparono oltre centoventi compagni. Il terzo raduno, facilitato dai nomi e indirizzi che eravamo venuti in possesso si svolse a Modena presso il ristorante del Mercato Bestiame. Decidemmo di costituire in Comitato dei Perseguitati Politici emigrati in Cecoslovacchia per fatti inerenti alla lotta di Liberazione, sia per ottenere la grazia a coloro che non erano ancora liberi o addirittura stavano ancora scontando anni di carcere, per la ricostituzione pensionistica e per fornire assistenza ai casi bisognosi. Le varie sezioni dell’A.N.P.I. assunsero la direzione organizzativa e di solidarietà di tutti i perseguitati. Da allora ci incontrammo tutti gli anni fino alla estinzione del Comitato a seguito della liberazione di tutti i compagni.

Personalmente sono andato varie volte a trovare in Cecoslovacchia i compagni che erano rimasti nell’emigrazione perché ancora liberi e in Iugoslavia quando si recavano al mare per cure ospiti dei compagni iugoslavi. Rimanevo con loro giorni e settimane, Organizzavo un pranzo ogni volta che andavo a trovarli sia a Brnò che in Iugoslavia portando con me tortellini, vino e prosciutto modenese, fino a quando non sono stati graziati tutti in particolare da parte del Presidente Pertini. Numerosi sono stati i compagni che mi sono venuti a trovare e sono stati miei ospiti graditi, come il compagno Enzo Nadaluti assieme a Ferrari di Brnò e l’anno successivo di nuovo Nadaluti con la moglie cecoslovacca (Veneziani) Pietro Pizza di Venezia, Bevilacqua (Borghi) l’indimenticabile bracciante della bassa ferrarese ultimo responsabile del collettivo di Brnò. (un compagno puro come l’acqua di fonte come ebbe a giudicarlo Gino Scalambra), Belletti, (Bortolotti) Arnaldo Bortolotti di Enzo (Zuppiroli Martelli di Bologna) ecc.

Ancora Bevilacqua che restò a casa mia un giorno, il suo ultimo giorno trascorso in Italia poiché nel viaggio di ritorno in macchina in Austria fu coinvolto in un incidente che fu la causa della sua morte poiché essendo sofferente di diabete non sopportò l’intervento chirurgico. Il ricordo va a tanti altri compagni purtroppo scomparsi: Passalacqua, Fontana di Reggio Emilia, Figaro di Concordia, Manizzi di Reggio Emilia, Azelio di Modena, Ferrararini, Mussini, Guerrino Medici (Giulio Bertelli) di Carpi, Iris Malagoli, Mario Malferrari, Oscar Franceschi di Spilamberto, Veronesi di Casale Val Serio, Amadio di Concordia Carparo di Bologna, Albani di Bologna.

Vada a tutti questi compagni deceduti il saluto e il ricordo reverente di tutti i compagni viventi a ricordo perenne delle nostre lotte e agli ideali che ci hanno accumunato fino a quando tutti abbiamo potuto essere liberi.